Autonomia differenziata: uno sguardo dal Sud
La legge sull’autonomia differenziata, approvata definitivamente dalla Camera dei deputati lo scorso 19 giugno, è stata promulgata dal presidente della Repubblica il 26 giugno. Una settimana di tempo è bastata a Sergio Mattarella per esaminare la norma e permetterne la promulgazione, non avendo ravvisato gravi violazioni della Costituzione.
La legge Calderoli è quindi “legge dello Stato” e si iscrive – portandolo alle estreme conseguenze – in quel processo di decentramento di alcune funzioni dello Stato agli organi periferici iniziato con la riforma del Titolo quinto” della Costituzione, varato nel 2001 e ratificato da un referendum nazionale.
Nel 2001 il decentramento dei poteri alle Regioni – nelle intenzioni del legislatore – doveva permettere di avvicinare sempre più lo Stato ai cittadini. Rimaneva però centrale il ruolo dello Stato, ente pubblico sovrano per eccellenza. Le regioni hanno visto crescere la loro autonomia statutaria, legislativa e finanziaria, ma rimanendo nel contesto di uno stato unitario che punta ad unificare e non a dividere.
Ma oggi quella riforma, voluta dai governi di centrosinistra, diventa il prodromo di ciò che sta accadendo in questi giorni. Allora in pochi si resero conto degli effetti di una riforma che – a conti fatti – ha portato ben pochi vantaggi al Paese.
Con la legge voluta dal governo Meloni – e ampiamente annunciata in campagna elettorale due anni fa – si fa un passo in più. L’autonomia differenziata scardina il modello regionale sancito dalla Costituzione, che aveva previsto un’Italia basata su principi solidaristici e cooperativi. Si incentiva il “fai da te”.
Se ne sono resi conto alcuni presidenti delle regioni meridionali, per primo Vincenzo De Luca in Campania, che vuole adire la Corte Costituzionale (che però, nel caso delle regioni, ha competenza solo qualora ne vengano lesi i poteri). De Luca è stato tra i primi ad avviare la battaglia contro l’autonomia differenziata, definita «una truffa». Anche la Puglia, con il presidente Michele Emiliano. «L’autonomia differenziata mina il principio di unità e indivisibilità della Repubblica come sancito dall’articolo 5 della nostra Costituzione – afferma Emiliano in una dichiarazione a Gazzetta del Mezzogiorno – e rischia di creare feudi regionali in cui attrarre potere pubblico e preservare ricchezze locali, a tutto svantaggio della perequazione nazionale». E la neo presidente della Sardegna, Alessandra Todde, definisce la nuova legge «una vergogna», che «lede le prerogative della Sardegna».
Si mobilitano anche le regioni rette da governatori di centrodestra, come la Calabria di Roberto Occhiuto, esponente di Forza Italia. A cui però i sindaci della Calabria chiedono una posizione ancora più forte e un ricorso alla Corte Costituzionale. C’è anche chi – come il giornalista Paolo Mieli – chiede a Occhiuto una maggiore coerenza e le eventuali dimissioni da Forza Italia. Posizione critiche anche dal presidente del Molise, Francesco Roberti, del centrodestra. In Molise è nato anche il Comitato Spontaneo «Autonomia differenziata, l’Italia che non vogliamo».
Restando al meridione, fanno eccezione il lucano Vito Bardi, che ha definito l’autonomia differenziata «una vittoria per l’Italia e per il Mezzogiorno», e il siciliano Renato Schifani, che in una dichiarazione all’Ansa ha parlato di «allarmismo infondato», ribadendo di non nutrire nessuna preoccupazione per il sud cui – a suo parere – «non saranno sottratte risorse».
Si esulta al Nord, nelle regioni rette dal centrodestra, anche se le posizioni sono differenziate. Su tutti Luca Zaia, storico presidente della Regione Veneto, che ha definito il 26 giugno (data della promulgazione della legge) «una data storica» e «una pietra miliare nella storia della Repubblica Italiana». Ma tra i presidenti delle regioni settentrionali oggi comincia a emergere qualche distinguo.
Una breve sintesi. La “legge Calderoli” permetterà alle regioni di chiedere e ottenere dal governo potestà legislativa e gestionali in 23 materie e – tra queste – anche alcune che sono state finora di pertinenza dello Stato e che rappresentano l’unità del Paese: infrastrutture e trasporti, sanità, scuola, energia. Si corre il rischio di avere sistemi scolastici diversificati e potenzialmente diversi. Potremo avere le regioni più ricche, capaci di pagare meglio studiosi e docenti, nelle condizioni di accaparrarsi le migliori energie professionali del Paese. Avremo scuole, studenti e titoli di studio che potrebbero avere valenza diversa (almeno sul piano dei contenuti) a seconda della parte del paese in cui ci si trova.
Ci sono dei correttivi. Il governo nazionale dovrà definire i Lep (Livelli essenziali di prestazione), cioè i livelli minimi di servizi cui tutte le regioni dovranno attenersi nel momento in cui chiedono di poter gestire in autonomia alcuni settori vitali. Su questi ci dovrà essere l’accordo di tutte le regioni. I Lep dovranno essere varati entro due anni. Riguarderanno 14 delle 23 materie. Resta da comprendere però dove verrà fissata l’asticella che fisserà i livelli minimi essenziali che dovranno essere garantiti, in modo unitario e uniforme, in tutto il Paese. Sugli altri nove non serviranno i Lep e si potrà partire subito.
Vivo in Sicilia. L’isola, ormai da qualche decennio, vive un progressivo impoverimento delle proprie risorse giovani. Negli anni del secondo dopoguerra dalla Sicilia partivano gli emigrati con le valige di cartone per emigrare nei paesi del Nord e trovare un lavoro (spesso senza fare più ritorno). Ora numerosi laureati nelle università del Nord Italia, specie in discipline scientifiche o economiche, vivono e lavorano in altre sedi, spesso all’estero. Sono le migliori intelligenze del nostro Paese, e anche adesso quasi mai fanno ritorno nelle terre d’origine. Questo determina un progressivo invecchiamento della popolazione, un depauperamento, di cui coglieremo appieno le conseguenze tra qualche decennio, quando un fenomeno del genere finirà per allargare sempre di più il divario tra le diverse aree del Paese.
Sono passati 160 anni dall’unità d’Italia. Nel 1861 il meridione (regno assoluto dei Borbone, con territori che conservavano vaste sacche di povertà nelle zone interne) aveva un sistema bancario tra i più floridi d’Europa e risorse finanziarie che velocemente presero la via del Nord. I “capitali” si trasferirono subito verso Torino e il Banco delle due Sicilie (poi divenuto banco di Napoli) passò sotto la guida di funzionari piemontesi.
Oggi, in un contesto profondamente diverso, il Sud continua a versare lacrime sulle sue piaghe senza alcuna capacità di programmare al meglio il proprio futuro. Così è stato negli anni della “Cassa del Mezzogiorno”, quando ingenti risorse arrivarono nelle regioni meridionali, ma quasi mai vennero spesi per favorire uno sviluppo reale; così negli anni dell’industrializzazione (Gela, Priolo, Termini Imerese, Pomigliano d’Arco, l’Ilva di Taranto, Rwm Italia nel Sulcis). Oggi restano solo le macerie, la storia di uno sviluppo fallito e di un territorio che è stato massacrato. Resiste – ed è anzi più florida purtroppo – solo la fabbrica di armi del Sud Sardegna.
Ora, l’autonomia differenziata. Cosa cambierà per la Sicilia e per le altre regioni meridionali? La storia ci dirà se essa avrà fatto bene al Paese o se sarà servita a marcare le differenze. La cronaca di questi giorni ci dirà come si muoverà il Paese e le sue forze politiche e sociali. Che forse sull’autonomia differenziata si sono svegliati troppo tardi.
Si promuoverà un referendum. Che sarà – ancora una volta – una prova di forze tra le correnti politiche. Che potrà servire – a seconda di quale punto di vista si vorrà considerare – a salvare il Paese dai rischi di uno sfaldamento o potrà imprimere una svolta al suo sviluppo.
Ci si augura che il voto referendario sia consapevole e si basi sui fatti. Che non sia solo supportato da logiche correntizie e di partito. Ma questo forse oggi è chiedere troppo alla maturità di questo Paese e del suo elettorato. Sempre più lontano – complici anche le riforme elettorali – dalla politica italiana. E che sempre più in massa diserta le urne al momento del voto.
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