Autonomia differenziata, origine e questioni aperte
Negli anni Novanta del secolo scorso l’Italia attraversava una grande spinta federalista. A dispetto dei tanti che allertavano sugli enormi problemi, anche pratici, che comportava ampliare la potestà legislativa delle Regioni, le forze politiche di tutti gli orientamenti sembravano attraversate da una vera febbre devolutiva e federalista.
La modifica del Titolo V della Costituzione è stata approvata, per volontà della maggioranza (che allora era di centrosinistra) il 21 settembre 2000. La riforma costituzionale era ispirata ai principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, ritenendo in tal modo di garantire maggiore efficienza di governo e migliore gestione delle risorse.
La riforma, tra l’altro, ha riformulato articolo 116, terzo comma, della Costituzione; prevedendo la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario, il cosiddetto “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consentirebbe ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre.
Le Regioni possono chiedere ed ottenere questa autonomia differenziata in ventitré materie. L’ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia sono le più disparate: istruzione, ricerca scientifica, reti di trasporto, energia, salute, beni culturali.
Le Regioni, tuttavia, per molti anni non hanno attivato la procedura di richiesta. Poi, nel 2017, la vicenda si è rimessa in moto per iniziativa di tre Regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, che hanno formulato le loro richieste. In parte diverse: il Veneto di Zaia le ha chieste tutte, la Lombardia di Fontana venti, l’Emilia-Romagna, guidata da Bonaccini, una dozzina.
La richiesta formulata dalle Regioni “autonomiste” ha acceso un dibattito acceso tra gli addetti ai lavori. L’obiettivo delle Regioni richiedenti, infatti, non è solo quello di poter liberamente regolare le nuove materie richieste; ma anche che i fondi regionali dipendano dalle tasse riscosse nella specifica Regione, con una compartecipazione regionale ai tributi erariali.
Fino ad oggi la ripartizione dei fondi fra le Regioni è stata effettuata in base a quelli spesi negli anni precedenti (spesa storica). Viceversa, le Regioni che chiedono il trattamento differenziato vogliono sganciarsi da questo criterio generale ed affermare il principio per cui le somme loro erogate devono dipendere da quante tasse pagano i cittadini residenti sul loro territorio. Sarebbe un passaggio epocale, anche dal punto di vista culturale ed economico. Infatti si stabilirebbe il principio in virtù del quale il livello dei servizi nella regione non dipende dai ‘bisogni’ ma dal ‘reddito’ regionale. E ciò significa che alle regioni più povere verrebbero sottratti fondi, che già oggi appaiono insufficienti.
È quindi iniziata una trattativa con lo Stato centrale. L’autonomia differenziata deve, infatti, essere concessa con una legge “rinforzata”: in primo luogo vi deve essere un’intesa fra lo Stato e la Regione a cui segue una complicata procedura, tra Parlamento, commissioni e conferenza Stato-Regioni per definire i contenuti della specifica autonomia della Regione richiedente.
Negli ultimi mesi vi è stata un’accelerazione impressa dalla nuova maggioranza di centro destra al Governo.
Il disegno di legge preparato dal ministro agli Affari regionali e autonomia Roberto Calderoli è stato approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri e potrà ora iniziare il suo iter parlamentare.
L’iter, come detto, è molto complicato. Coinvolge a più riprese il Governo, diversi ministeri, la Regione richiedente, la Conferenza Stato-Regioni e il Parlamento. Il tutto per arrivare alla stipula di un’intesa, che deve poi essere approvata a maggioranza assoluta dalle Camere. Secondo il Ddl Calderoli, le risorse necessarie alla Regione richiedente per esercitare le nuove funzioni verranno definite da una commissione paritetica Stato-Regione. La successiva intesa definirà le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite, che avverranno attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale.
Le regioni del Sud hanno avanzato preoccupazioni sul testo appena approvato. In prima linea il governatore della Campania Vincenzo De Luca che, commentando il provvedimento sull’autonomia regionale differenziata, ha sottolineato come «l’ipotesi di autonomia proposta è inaccettabile, è una proposta propagandistica che spacca l’Italia ».
Secondo molti commentatori il progetto di autonomia differenziata rischia di violare implicitamente i principi costituzionali di perseguimento dell’eguaglianza sociale (artt.3, 32) e di integrità della Repubblica (artt.5, 117-118-119), di parità e progressività della tassazione (art.53) e di determinazione di principi della funzione legislativa (art.76).
Non è solo un problema fiscale e di risorse, ma anche di competenze e regole: si pensi alla salute, all’istruzione, al governo del territorio – materie che hanno evidente attinenza con i principi costituzionali fondamentali sui quali si fonda l’ordinamento dello Stato nella sua indivisibilità. Oppure si pensi all’attribuzione esclusiva alle Regioni richiedenti di materie che per loro natura richiamano la potestà legislativa statale, come la tutela e sicurezza sul lavoro, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione.
Per cercare di ovviare, in parte, a questi problemi, si è deliberato di subordinare l’attuazione dell’autonomia differenziata alla definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). I LEP riguardano i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio della Repubblica. Già nell’articolo 1 del Ddl Calderoli, comma 2, si legge che «l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (…) è consentita subordinatamente alla determinazione (…) dei relativi livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (…)».
Tuttavia non è così semplice definire questi livelli, per ragioni evidenti. Si tratterebbe di fare uno sforzo notevole per stabilire davvero cosa deve essere garantito a tutte e tutti, ovunque, sul territorio nazionale. In astratto affascinante, ma non semplice da tradurre in pratica. Senza considerare che la definizione del LEP a livello nazionale rischia addirittura di avere l’effetto opposto a quello voluto dagli “autonomisti”, ossia riportare a Roma la decisione di quali servizi debbano essere effettuati, e con quale frequenza (ad esempio: a tutti gli studenti deve essere garantito il tempo pieno a scuola).
A meno di non voler, invece, tradurre il tutto in somme pro capite, e dunque stabilire solo in termini economici che cosa spetta ai cittadini come livello minimo (e quindi, ad esempio, per ogni anno di scuola, per ogni studente, deve essere stanziato tot, dallo Stato alla Regione). Quindi fino ad oggi i Livelli Essenziali delle Prestazioni non hanno mai visto luce, se non parzialmente (in sanità sono stati definiti i Livelli Essenziali di Assistenza, “LEA”).
Una cosa è certa. Il dibattito sui LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) permette di comprendere quanto ancora in Italia si sia lontani da garantire questi livelli, in modo ragionevole e sufficiente, su tutto il territorio nazionale.