Autonomia differenziata, criticità di una riforma annunciata. Intervista a Marco Esposito
Dopo le elezioni europee, la maggioranza del governo Meloni si appresta ad approvare, prima della pausa estiva delle Camere, la cosiddetta riforma Calderoli sull’Autonomia differenziata che è il cavallo di battaglia della Lega di Salvini, ma trova origine da istanze avanzate anche dal presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini.
Come riportato da cittanuova.it la riforma riceve forti critiche anche dal mondo cattolico e della stessa Cei, tanto da far emergere una polemica tra la presidente del Consiglio Meloni e il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana.Vedi Focus di approfondimento promosso da Città Nuova su Autonomia differenziata.
Sul merito delle critiche alla riforma abbiamo sentito Marco Esposito, giornalista e saggista esperto di questioni meridionali, tra gli esponenti più critici verso questa riforma istituzionale accusata di dividere l’Italia.
Prima di entrare negli aspetti più tecnici e nelle motivazioni, le chiediamo di anticipare una valutazione generale del ddl Calderoli e del Titolo V della Costituzione riformato nel 2001: è un’occasione per migliorare efficacia ed efficienza dei servizi ai cittadini o drammatico aumento delle disparità già esistenti tra regioni, in particolare tra Nord e Sud?
La riforma del 2001 nella sua attuazione, per esempio per gli enti comunali, ha già portato un aumento di disparità tra i territori, sia nei servizi sia nel peso della fiscalità locale come certifica un rapporto Ifel-Anci. L’autonomia differenziata non può che moltiplicare tali negatività.
Il Titolo V riformato nel 2001 afferma il principio di sussidiarietà verticale, non solo tra Stato e Regioni, ma tra Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni. Tale sussidiarietà, in linea di principio, oltre a venire incontro alle specificità dei territori, dovrebbe avvicinare i servizi ai cittadini, dando loro un maggior controllo su come vengono spesi i soldi delle tasse da essi pagate. Ritiene che tale principio sia valido, che sia ben espresso dall’attuale Titolo V e che sia rispettato dal ddl di attuazione oppure no? Se no, perché?
Il principio di sussidiarietà, che condivido, ha come perno gli enti più vicini ai cittadini, quindi i Comuni, che però in Italia sono estremamente diversificati (si va da poche decine a milioni di abitanti). Senza un accorpamento degli enti troppo piccoli la riforma è squilibrata. Anche il ruolo degli enti intermedi, Province e soprattutto Città metropolitane, meriterebbe una migliore definizione. In tale quadro rafforzare oltremodo le Regioni crea un ulteriore squilibrio perché, in quanto enti intermedi, la loro azione non dovrebbe mai prevaricare quella degli enti più vicini al cittadino. Si rischia un poli-centralismo a danno dei municipi.
L’aspro dibattito sul ddl Calderoli evidenzia una profonda spaccatura tra l’attuale maggioranza parlamentare e le minoranze. Poiché il ddl Calderoli è solo una legge di attuazione della riforma costituzionale del Titolo V avvenuta nel 2001 per volontà dell’allora maggioranza di centro-sinistra con la contrarietà dei partiti di centro-destra (che oggi invece la vogliono attuare), ciò significa che c’è stato un opposto ripensamento da parte delle forze politiche di centro-sinistra e di centro-destra sui contenuti della riforma oppure si è trattato nel 2001 e si tratta oggi soltanto di opposizione strumentale tra maggioranza e opposizione ?
Va detto con chiarezza che la riforma del 2001 è stata un errore per tre ragioni. La prima è che non si cambia la Costituzione a ristretta maggioranza. La seconda è che non si usa la Costituzione come strumento di scambio politico (fare un favore alla Lega per rompere l’alleanza Bossi- Berlusconi). Il terzo errore è aver commesso i primi due senza neppure conseguire l’obiettivo. A tale quadro di errori commessi dal centrosinistra, si aggiunge l’errore del centrodestra e cioè voler attuare la riforma forzandone il senso. Maroni in Parlamento aveva detto esplicitamente che l’obiettivo della Lombardia era rastrellare almeno 27 miliardi di euro all’anno aggiuntivi rispetto alla situazione attuale, mentre Zaia oltre a manifestare analoghi propositi prima nel 2014 ha promosso un referendum per chiedere ai veneti l’indipendenza e poi nel 2017 ha tenuto il referendum su un quesito molto generico, ma scegliendo come data il 22 ottobre come esplicita risposta al plebiscito del 22 ottobre 1866 di annessione del Veneto all’Italia. L’obiettivo, insomma, non è la maggiore autonomia su specifiche funzioni, ma scardinare lo Stato puntando nella misura più ampia possibile a denari e poteri.
L’articolo 9 del ddl Calderoli afferma tra l’altro che le intese tra Stato e Regioni che chiedono maggiore autonomia non possano pregiudicare l’entità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre Regioni. Nonostante questa affermazione, da molte parti si teme o si è certi che l’aumento dei tributi trattenuti dalle regioni che otterranno l’autonomia per finanziare le nuove competenze (presumibilmente alcune regioni del Nord, almeno all’inizio) si ritorcerà contro le regioni più povere che avranno a disposizione meno risorse finanziarie da parte dello Stato (tipicamente nel Sud). È fondato o no questo timore e perché? Sono sufficienti i controlli e gli aggiustamenti annuali da parte della Commissione Paritetica e del MEF previsti dall’articolo 8?
Se un gruppo di regioni accresce le competenze e le spese ciò porterà inevitabilmente una o più delle seguenti tre cose: a) meno risorse ad altre regioni; b) meno risorse allo Stato; c) più tasse per cittadini e imprese. Peraltro il moltiplicare i centri di spesa incrementa i costi, almeno in generale, altrimenti non avremmo avuto fusioni bancarie e societarie tese a creare sinergie, cioè risparmi. Quanto ai controlli, la Commissione Paritetica è un punto debolissimo del Ddl Calderoli perché il controllore non può mai essere in conflitto d’interesse con il controllato e invece metà dei membri della CP sarebbero scelti dalla Regione da controllare. A ciò si aggiunga che ci sarebbe una CP per ogni Regione, quindi una babele di controllori.
L’articolo 10 prevede una serie di misure perequative e solidali da applicare a tutte regioni, in particolare quelle che non chiedono ulteriori forme di autonomia. Che ragionevole garanzia si può avere (o non avere) sull’applicazione effettiva di tali misure?
Ancora una volta stiamo ai fatti. Mentre il Ddl Calderoli che parla di perequazione era in discussione, il governo ha definanziato in data primo gennaio 2024 il Fondo di perequazione infrastrutturale, riducendolo dai 4.600 iniziali a 890 milioni. 4.600 milioni diluiti fino al 2033 non erano molti, ma 890 milioni per il 2024-2033 sono una presa in giro.
Un punto critico del ddl è che nell’articolo 9 si afferma che ogni intesa tra Stato e Regione non deve comportare “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, ma questo per le materie non soggette ai LEP, cioè ai “livelli essenziali delle prestazioni”. Per quelle soggette ai LEP invece ci possono essere (e ci saranno sicuramente) nuovi oneri che dovranno essere finanziati con i normali strumenti di programmazione economico- finanziaria. Cosa succede se non si riuscisse a finanziare tutti o alcuni LEP? Questa condizione potrebbe rendere inattuata gran parte di un’intesa Stato-Regione?
Il vincolo degli oneri vale per tutte le intese, LEP o non LEP. Per le materie LEP, il vincolo lo puoi rispettare fissando dei LEP a livello molto basso. Per esempio se prendi la regione con il servizio peggiore di tempo pieno a scuola e indichi quel livello come il LEP da garantire in tutte le regioni, per definizione tutte le regioni saranno in grado di garantire il LEP a risorse invariate.
Ad oggi i LEP sono definiti quasi per nulla e ci sono disparità evidenti tra i servizi erogati nelle diverse regioni. L’attuazione del Titolo V potrebbe essere l’occasione per risolvere il problema o sarebbe meglio affrontare i LEP prima e indipendentemente dall’attuazione del Titolo V?
I LEP finora sono stati poco attuati proprio perché o li definisci a un livello molto basso, oppure devi finanziare i territori con livelli sotto il LEP. L’unico esempio positivo in vigore è il LEP asili nido, introdotto nel 2022 e finanziato gradualmente entro il 2027. Non c’è dubbio dal punto di vista logico, sociale e costituzionale che i LEP andrebbero definiti e finanziati indipendentemente dall’Autonomia differenziata, ma va riconosciuto che la spinta in favore dell’AD ha aperto il dibattito sui LEP.
I LEP costituiscono i livelli minimi delle prestazioni, sotto i quali non si potrà andare. Anche se i LEP fossero completamente finanziati a livello nazionale, le regioni autonome più virtuose potrebbero migliorare i propri servizi creando comunque disparità tra regioni diverse. Ritiene che ciò sia legittimo e che possa innescare un ciclo virtuoso di emulazione e buone pratiche o pensa che sia preferibile la totale omogeneità dei livelli di servizio per non creare disparità tra i cittadini?
Se i LEP fossero ben definiti, finanziati e soprattutto se fosse controllato e garantito il loro rispetto, non sarebbe un problema la nascita di servizi aggiuntivi in determinati territori. Ma ancora una volta stiamo ai fatti. Oggi nella sanità i LEA sono definiti, ma non garantiti ovunque e nelle regioni dove da anni non si rispettano i LEA non accade nulla. Persino dove lo Stato ha commissariato la Sanità da oltre un decennio, come in Calabria, i LEA non sono garantiti costringendo le persone alle migrazioni sanitarie. Aggiungere a tale sistema già fortemente penalizzante per il Sud meccanismi come i contratti di lavoro regionalizzati, per far trasferire medici e infermieri dal Sud ai territori più ricchi porterebbe un drammatico aggravarsi delle disparità territoriali.
Quali altri aspetti del ddl Calderoli e/o del Titolo V le sembrano più problematici e perché?
Il Ddl Calderoli e più in generale il Titolo V tendono a creare diritti differenziati per residenza e ciò spinge i cittadini delle aree svantaggiate, inevitabilmente, a cambiare residenza. In un paese sano dal punto di vista demografico, le migrazioni interne sono un fattore di riequilibrio. Ma l’Italia è prossima al collasso demografico (nel 2027 ci saranno più persone di anni 80 che di anni 18) per cui le migrazioni dal Sud portano letteralmente alla chiusura di intere comunità, che perdono prima la scuola, poi le strutture sanitarie, poi la rete di servizi.
Quali altri aspetti del ddl Calderoli e/o del Titolo V le sembrano invece più positivi e perché?
Di positivo c’è l’apertura del dibattito e il risveglio delle coscienze. Dire a una persona «hai un disabile in famiglia, lo sappiamo, ma sei calabrese e quindi ti devi arrangiare» è semplicemente inaccettabile. E, infatti, le popolazioni del Sud non possono accettarlo.
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