Autonomia differenziata: cattolici in fermento

La discesa in campo di molti vescovi. Una ingiustizia e una ingratitudine. La questione dei livelli essenziali di gestione. Un processo discriminante

Sull’autonomia differenziata i vescovi italiani sono scesi in campo con autorevolezza. Ad alcuni potrà sembrare un’ingerenza politica, in realtà è una preoccupazione pastorale, un’attenzione evangelica alle condizioni del popolo di Dio. L’autonomia differenziata, che il Parlamento si appresta a discutere e ad approvare a colpi di maggioranza senza un serio approfondimento, rischia di portare l’Italia allo sbando, accentuando le disuguaglianze tra le regioni e mettendo in discussione principi solidaristici e di equità sociale sollecitati dalla Costituzione italiana.

Il regionalismo è stata una bandiera cattolica fin dal Partito popolare di don Luigi Sturzo nell’ottica di una valorizzazione dei territori, mai come strumento di discriminazione sociale. È duro l’arcivescovo di Napoli, mons. Domenico Battaglia. «L’egoismo di ricchi resi spesso tali dall’intelligenza dei meridionali, da quel Sud terra di esodi, svuotato progressivamente delle sue fondamentali ricchezze depredate e coperte da fiumi di inganni e false promesse, ancora ci mortifica», ha scritto senza troppi giri di parole. «I promotori e i sostenitori di questa legge incollano, con una certa superbia, questa vittoria alla realizzazione di articoli costituzionali, dimenticando l’essenza del principio di sussidiarietà che dovrebbe essere il riconoscimento della necessaria socialità di tutte le persone chiamate a completarsi e perfezionarsi vicendevolmente in una reciproca solidarietà economica e spirituale».

Non è da meno la Conferenza episcopale calabra che, la domenica delle Palme, ha diffuso un articolato documento: La dis-unità nazionale e le preoccupazioni delle Chiese di Calabria. Per i vescovi calabri l’autonomia differenziata è, da un lato, un tentativo di secessione delle regioni più ricche, dall’altro, un attacco alla democrazia. «Il rischio che si corre per la tenuta della democrazia nel nostro Paese è evidente se si considera che lo strumento con cui le competenze verrebbero concesse alle Regioni è quello della intesa fra lo Stato e ogni singola Regione», scrivono i vescovi. Insomma la questione sarebbe nelle mani del governo del momento. Che cosa potrebbe fare, per esempio, il governo Meloni di fronte alle pretese dei leghisti veneti e lombardi se vuol restare in carica? L’attenzione dei vescovi calabresi si focalizza sui fabbisogni standard, sul fatto che l’autonomia non può prevedere maggiori costi per le finanze pubbliche. Chi finanzierà i livelli essenziali di prestazioni al Sud? Posto che i soldi ci siano, scrivono ancora i vescovi, «la vera questione è quella di dotare i territori delle infrastrutture sociali necessarie per programmare, progettare, gestire, rendicontare e valutare gli interventi ordinari. La questione dei livelli essenziali di gestione è prioritaria rispetto a quella della determinazione dei livelli essenziali di prestazione».

I vescovi siciliani sono intervenuti direttamente sulla Commissione Affari Costituzionali del Senato con un dettagliato documento in cui evidenziano tutte le criticità rilevate nel testo in discussione. Esse riguardano le risorse economiche, i rapporti finanziari, la natura degli strumenti normativi per definire i livelli essenziali di prestazioni, il mancato riferimento al dovere di solidarietà sociale previsto dall’articolo 2 della Costituzione, l’assenza di misure perequative che permettano di riequilibrare le forti disomogeneità sociali. Ce n’è d’avanzo.

Che qualcosa non funzioni è chiaro anche ai vescovi del Nord. «Se è giusto che ci sia una certa autonomia che valorizza di più la soggettività delle singole Regioni – ha detto a Famiglia cristiana mons. Domenico Pompili, vescovo di Verona – non si può non tener conto della situazione di partenza molto squilibrata». E l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, ha aggiunto: «È una ingiustizia e anche una ingratitudine, se si tiene conto che le nostre città, le nostre fabbriche, il nostro triangolo industriale, la nostra ricchezza sono stati possibili grazie alla presenza e alla forza lavoro del meridione». Nel documento conclusivo del Consiglio episcopale permanente dello scorso marzo i vescovi «hanno rinnovato l’appello per uno sviluppo unitario, che metta in circolo in modo virtuoso la solidarietà e la sussidiarietà, promuovendo la crescita e non alimentando le disuguaglianze».

Il mondo cattolico è in fermento come da tempo non si vedeva. Nel corso della Conferenza nazionale di coesione territoriale le Acli hanno fatto un appello al governo; voci preoccupate si sono levate da numerose associazioni territoriali dell’Azione cattolica italiana; critica è la Comunità di connessioni, luogo di confronto e formazione di area gesuita sui grandi temi dell’agenda politica. Ma non mancano voci dissonanti. Arrivano dai cattolici che gravitano intorno alla rivista Tempi. Resta il fatto che se da più parti si vede nell’autonomia differenziata un processo discriminante, il rischio c’è ed è alto. Non solo per il Sud, ma per l’intero Paese.

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