Australia, il caldo inarrestabile
Ogni continente, ogni Paese ha ormai le sue storie di tragedia dovute ai cambiamenti climatici. Talvolta i fenomeni meteorologici più gravi risultano “normali” nelle lunghe serie statistiche dell’evoluzione climatica, ma sempre più si “sforano” limiti che si ritenevano invalicabili. Si legge così, all’altro capo del mondo, di una serie di incendi devastanti che stanno colpendo l’Australia e che costringono le autorità australiane a dichiarare lo stato di emergenza per una settimana, per la seconda volta nell’anno, nello Stato del Nuovo Galles del sud, di cui Sydney è la capitale, dove le temperature favoriscono lo scoppio di incendi boschivi giganteschi. Il primo ministro, Gladys Berejiklian, ha parlato di «condizioni meteorologiche catastrofiche». In realtà centinaia sono gli incendi scoppiati nel Nuovo Galles del sud già da settimane, la metà dei quali sono divampati senza la possibilità di essere messi sotto controllo, provocando il concentrarsi di nuvole di fumo tossico che hanno coperto Sydney, più di 5 milioni di abitanti.
In effetti l’annuncio arriva dopo un nuovo record di calore registrato mercoledì scorso, per il secondo giorno consecutivo, con una media nazionale (media, non di picco) delle temperature massime arrivate a 41,9 gradi centigradi, cioè un grado in più rispetto al record di 40,9° stabilito martedì. Il record precedente, stabilito nel gennaio del 2013, era stato di 40,3°. Più di 2 mila vigili del fuoco sono impegnati nella lotta col fuoco, aiutati da colleghi canadesi e dall’esercito regolare. Gli ospedali sono stati assaliti da pazienti per quella che è stata definita una «emergenza sanitaria pubblica» a causa dei fumi tossici legati agli incendi che hanno avvolto la città per settimane. L’aumento dei ricoveri ha toccato l’80%.
Incendi gravi sono scoppiati pure nel Queensland, a nord del Nuovo Galles del sud, così come nell’Australia meridionale e occidentale. Almeno tre milioni di ettari sono andati in fumo nelle ultime settimane. Sei persone sono morte e oltre 800 case sono state distrutte. Gli esperti hanno notato che gli incendi sono più violenti del consueto a causa di una siccità record. Le immense lande del bush sono estremamente secche e offrono le condizioni ideali per lo scoppio di incendi per autocombustione. Ciliegina sulla torta, alcune città sono anche a corto di acqua potabile.
Gli ecologisti, ovviamente, additano le responsabilità del governo conservatore, che sarebbe riluttante ad adottare misure contro il riscaldamento globale, in particolare per proteggere le importanti esportazioni di carbone del Paese. L’Australia, lo ricordiamo, è stato uno degli Stati più riluttanti nell’adottare l’accordo di riduzione dei gas serra alla recente conferenza delle Nazioni Unite sul clima a Madrid, la Cop25.
Ricordo una visita fatta nel 2013, a Maryslands, che era stata una tranquillissima e ridente stazione di villeggiatura, turismo e passeggiate e sport e marmellate e feste danzanti. Fino al Black Saturday, il sabato nero, che il 7 febbraio 2009 aveva distrutto in Australia, in un solo giorno, qualcosa come 2 milioni di ettari di foresta, provocando nel contempo circa 200 morti carbonizzati o asfissiati. Marysville improvvisamente scomparve, bruciata, immolata dal bush fire che era arrivato come una furia irrefrenabile. I morti nella cittadina furono 6. Pochissimi dei suoi abitanti avevano stipulato una polizza d’assicurazione, e così le sue famiglie persero tutto. Ma la forza d’animo degli australiani in quest’occasione emerse prepotente anche a Maryslands, e in un paio di anni la città risorse. D’accordo, qui le case erano di legno, ci vuole forse poco a tirarle su, ma l’impresa aveva comunque del miracoloso.
L’Australia ha sempre conosciuto incendi epocali, ed è sempre tornata “a galla”, verrebbe da dire. Ma fino a quando?