Intervista ad Aurora Ruffino: la bellezza del presente

«Bellezza è perdersi negli occhi delle persone, ritrovarsi negli altri, "cadere" dentro la loro anima»
Aurora Ruffino in "La luce nella Masseria". (Foto di F. Di Benedetto)

Aurora Ruffino è un’attrice di spicco nel panorama italiano. Giovane donna di grande forza e sensibilità, è in cerca del senso della vita. Ci parla di bellezza, lavoro e salute mentale.

Salute mentale e ricerca spirituale sono importanti per te. Le due cose sono legate?

Sì, si tratta di due argomenti che ho vissuto. Per la salute mentale, una persona a me vicina ha tuttora problemi importanti. La ricerca spirituale, invece, è una cosa che mi è successa, una specie di risveglio. Come seavessi vissuto 30 anni della mia vita focalizzata sul mondo, su lavoro e studio… Poi, all’improvviso, dopo una crisi personale dove mi ponevo molte domande sul senso delle cose, ho iniziato una ricerca fatta di letture e studio. Ho cominciato a porre più attenzione a quello che mi accadeva, ma vedendolo in modo diverso.

Ad esempio, ho fatto caso con rinnovato stupore ai colori della natura. La maggioranza di noi, nella gran parte del nostro tempo, agiamo pensando sempre a cosa dovremo fare dopo e non siamo veramente presenti a quello che stiamo facendo. Succede però che, quando si partecipa al massimo a quello che si fa, ci si rende conto della sacralità del momento, e spesso il pensiero legato al futuro o al passato ci ruba l’unica cosa che esiste: il presente. È iniziata una bella fase, credo che sia un percorso che durerà un’intera vita.

Scena del film "La luce nella masseria".
Scena del film “La luce nella masseria”

Non ne prevedi, quindi, un arrivo?

L’idea di arrivare è un concetto mentale che devia, perché a mio parere l’arrivo non esiste. Implica il fatto che tu debba giungere da qualche parte, e che quindi ti trovi in un momento che non è quello in cui vorresti essere. Invece, quello che conta è quello che c’è ora, siamo io e te che parliamo, adesso.

Anche se si ha il desiderio di intraprendere un percorso spirituale, l’arrivo inteso come “finalmente capirò qualcosa” è una specie di trappola. La risposta secondo me sta sempre nella realizzazione di quello che è il momento presente.

Parliamo di bellezza. Cosa significa per te?

Bello è ciò che amo. Quando penso alla bellezza, mi viene subito in mente l’immagine degli occhi delle persone. Sai che sono l’unico organo che non invecchia? Mentre tutto il corpo in qualche modo si deteriora, gli occhi rimangono gli stessi. Sì, magari può arrivare la malattia, si può vedere di meno, ma comunque l’occhio rimane quello che è. Per questa ragione si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Quando penso alla bellezza, mi viene in mente questo ritrovarsi nell’altro, in qualche modo “cadere” dentro la sua anima. Poi, se dobbiamo parlare di bellezza estetica, per me sta nella naturalezza e nella genuinità. Anche nel tempo che passa. Mi piacciono le rughe che inizio ad avere! Sono espressione di cambiamento, giusto?

A me spaventano un po’, invece, le cose che tendono a rimanere uguali. Penso alla chirurgia estetica, o a certi interventi finalizzati a farti restare in un modo. È un cercare di andare contro la vita. Quest’ultima è invece cambiamento, evoluzione, nascita e morte. È crescita e deterioramento. Cercare difermare questo scorrere è avere paura della vita. Tra l’altro, si cerca di rimanere aggrappati a un’immagine che è mentale. È quella che tu credi sia la bellezza per te, un concetto che poi cerchi di raggiungere, ma spesso non ti rispecchia, è un’illusione. Non ci si può fossilizzare. In poche parole, unadelle ragioni per cui non si arriva mai a un punto in cui si sta bene con se stessi è perché si cerca di raggiungere un’idea che non esiste.

Scena del film "La luce nella masseria".
Scena del film “La luce nella masseria”

Hai subito critiche o pressioni esterne per conformarti a un certo modello di bellezza?

Pressioni mai, anche se, quando ero più giovane, forse non mi sono sentita abbastanza sotto un punto di vista estetico. Sono una persona semplice, la ragazza della porta accanto. È normale quindi che, quando si è piccoli, capiti di cadere nell’errore di paragonarsi agli altri, di non sentirsi all’altezza. Poi, crescendo e anche soffrendo, si imparano delle lezioni importanti. Soprattutto a volersi bene, ad amare se stessi. Ho smesso di fare paragoni, però non ho mai, per fortuna, avuto pressioni o richieste particolari legate al mio aspetto fisico.

Ad oggi, potresti affermare di amarti?

Sto imparando ancora adesso. Penso che amarsi non significhi soltanto dirsi di essere belli e bravi. Significa piuttosto guardare le proprie ferite, anche quelle che ci causano dei comportamenti di cui spesso non siamo neanche consapevoli, che ci portano ad agire in un modo che poi ci fa soffrire. Allora c’è bisogno di fare dei percorsi di conoscenza di sé veramente importanti. Io lo sto facendo adesso, all’età di 34 anni!

Questo per me significa imparare ad amarsi: guardarsi dove è difficile guardare, e accettare ciò che è difficile da riconoscere. Significa avere il coraggio di mettersi allo specchio e dirsi le cose come stanno: come sto, cosa penso, come mi sento. Non sono percorsi facili, si parla di amore di sé con troppa leggerezza. Viene scambiato con l’egoismo, ma è prima di tutto un rapporto di conoscenza di se stessi, di amore, per poi essere autentici anche con gli altri.

C’è un ruolo che hai interpretato, famoso, che tocca le conseguenze legate al cambiamento del proprio fisico: Cris di “Braccialetti rossi”. A 10 anni dalla prima puntata, cosa ti è rimasto nel cuore?

Sono sorpresa dall’effetto che questa serie ha ancora oggi sulle persone, perché mi ha fatto capire la potenza di tv e cinema. Quando si raccontano storie importanti, che toccano la gente, possono succedere miracoli. Con Braccialetti rossi è successo, e ancora accade. Non me lo scorderò mai. Mi è capitato di incontrare ragazze che avevano le stesse problematiche di Cris, e che grazie a Braccialetti rossi sono riuscite a superarle.

Quello che ha fatto quella serie io ancora non me lo so spiegare. Siamo stati in giro per gli ospedali, da bambini che avevano creato il loro gruppo dei Braccialetti rossi in reparto. Ricevevamo lettere di ragazzi a scuola che prima venivano presi in giro, perché magari avevano una malattia, e poi sono diventati gli eroi della classe. Genitori che avevano perso figli per le stesse problematiche di alcuni dei ragazzi della serie tv, hanno iniziato di nuovo a condividere in famiglia ciò che di doloroso era accaduto, mentre prima non ne parlavano più. Braccialetti rossi, nella mia esperienza lavorativa e professionale, è stato unico. Sono veramente grata di aver avuto l’occasione di far parte di questo lavoro, perché ha fatto e continua a fare ancora tanto bene.

Aurora Ruffino sul set della serie tv "Noi".
Aurora Ruffino sul set della serie tv “Noi”

Cosa diresti a una ragazza – che hai già incontrato nella vita reale – come Cris?

Cercherei di farle capire che non è sola nel suo dolore, ma è un’inquietudine che tutti sentiamo e che ognuno cerca di affrontare in modo diverso. Proverei a farle capire che non è sola. Poi le suggerirei di cercare aiuto, parlando con persone che possano darle una mano. Di affidarsi alle cure di medici, psicologi e della famiglia, che non aspettano altro che provare ad aiutare.

Sai, c’è poco di più da fare: è un percorso che il singolo deve fare da sé. Deve affrontare un lavoro di accettazione del dolore che sente, per poi avere il desiderio di essere aiutato. Certo, è importante avere qualcuno vicino, però è importante anche per le persone che stanno vicino a ragazze o ragazzi che vivono delle problematiche del genere capire che purtroppo nessuno può salvare veramente qualcun altro, perché si rischia. Si rischia poi di sentirsi responsabili dell’esito riuscito o meno di un certo tipo di aiuto. È importante esserci, ma anche sapere che il passo di accettazione di richiesta d’aiuto deve essere fatto dalla persona che non sta bene, altrimenti siamo impotenti.

Si rischia il rigetto?

Sì. Ma è una fase che fa parte anche dell’anoressia. Una fase di non accettazione. Non ci si rende conto della condizione in cui ci si trova e c’è il rifiuto dell’aiuto dell’altro. Ma se con un supporto – e anche un percorso interiore che la persona fa – l’individuo si rende conto della propria situazione, se accetta il dolore, allora si supera questa fase. Chiunque soffra di un disturbo simile ti dice: «Io non sto male, sto benissimo, siete voi che state male, siete voi che mi volete male». C’è una non accettazione della realtà.

Hai interpretato donne ricche di fascino: Bianca de’ Medici, Ines Sartori nel film su Chiara Lubich, l’ultima regina d’Italia Maria José… In chi ti sei immedesimata di più?

Maria José è stata unica, mi sono estraniata da me stessa, trasformandomi in lei. Mentre negli altri ruoli c’era sempre una parte di me, un mio modo di fare, di parlare o di essere, in Maria José mi trasformavo, grazie anche ai costumi, al trucco e al parrucco che sono stati fantastici, ma anche il fatto che dovessi parlare con una leggera cadenza francese. I costumi mi davano una postura, un modo di camminare, di muovermi, che non appartengono alla mia vita. In Maria José ho sperimentato una totale trasformazione, è stata una sensazione bellissima, davvero.

Su Vogue hai affermato che ti piacerebbe parlare di salute mentale attraverso un ruolo nel cinema. Bolle in pentola qualcosa?

Magari. In pentola no, ma nella mente sì. Poi non so quanto tempo ci vorrà per manifestare questo pensiero, il desiderio sicuramente c’è di parlare di salute mentale.

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