Aurelio, il frutto di Loppiano
Non ho conosciuto Aurelio Lagorio, quando nell’autunno del 1969, arrivai a Loppiano, la cittadella dei Focolari vicino Firenze, Aurelio non c’era più su quelle strade che aveva contribuito a tracciare, fra quei casolari e quei terreni un tempo abbandonati ed incolti, in quel capannone dove aveva animato una delle prime aziendine nate per sostentamento degli abitanti: la cernita dei ritagli di tessuti per il loro riciclaggio. Non c’era perché era morto nel febbraio 1968 a 22 anni per un incidente automobilistico. Aleggiava invece la sua presenza spirituale fra quanti l’avevano conosciuto e amato, riviveva nei racconti di episodi della sua breve esistenza, in alcuni suoi scritti che circolavano: testimonianze di una santità difficile da descrivere forse perché estremamente semplice, senza fatti clamorosi.
Ricordo le visite da solo o a gruppi alla sua tomba nel piccolo cimitero di San Vito, dove era seme in attesa della resurrezione che già dava tanti frutti di conversione al Vangelo; rivedo la foto di lui sorridente sulla lapide con la frase: «Divenuto in breve tempo perfetto, compì le opere di una lunga vita». Visite a un amico e fratello dal quale si andava a chiedere consiglio, a farsi consolare, a riconfermarsi seguaci di Cristo. «Tu dici a me senza parlare/cose di un mondo più vero» cantava Mario Desiati in un brano del Gen Rosso dedicato al giovane Lagorio.
Appresa la storia di Aurelio nelle linee essenziali, mi era però sfuggita la sua biografia apparsa nel 1980 a cura dell’Azur di Loppiano. L’autore Alfredo Zirondoli era stato co-responsabile della cittadella dal 1966 e in tale veste lo aveva conosciuto a fondo; anzi, da medico, aveva fatto un estremo quanto vano tentativo di salvarne la vita dopo l’incidente. A distanza di un quarantennio, la ristampa Città Nuova col titolo Vita di Aurelio Lagorio, Scritti e testimonianze (tra cui quelle della sorella Caterina e di Carlo Nunziati, in auto con lui nel momento dell’incidente) ha completato la mia conoscenza della sua figura, restituita con freschezza e incisività.
Nato a Novara nel 1946, all’età di due anni Aurelio emigra con i genitori e la sorella in Uruguay, dove nasce una seconda sorellina: Mabel. Quando ha 17 anni, la famiglia ritorna in Italia, mentre lui rimane a Montevideo per continuare gli studi. E proprio durante questo periodo di circa un anno rimane attratto dalla vita di alcuni focolarini che testimoniano un Vangelo messo in pratica nelle azioni di tutti i giorni. Al momento di iscriversi all’università Aurelio rientra in Italia e raggiunge i suoi a Genova, dove continua a frequentare i membri del Movimento e matura la scelta totalitaria di lasciare tutto per seguire Gesù. Ha solo 19 anni quando, nel novembre 1965, arriva sulle colline di Loppiano: lì partecipa attivamente alla costruzione della nascente cittadella e nello stesso tempo ai corsi di formazione per focolarini.
Di questi inizi dà notizia all’amico Antonio, rimasto in Uruguay: «Qui noi che veniamo da tutte le parti del mondo cerchiamo di costruire questa città […] unendoci in una catena d’amore in ciò che uno ha di positivo e lasciando dietro le spalle tutto il resto. Per questo noi qui vediamo un solo popolo: il popolo di Dio. Ed è veramente un miracolo perché tutte le barriere che si sono costruite per anni, per secoli, cadono come se non fossero niente. Perché l’unica cosa che abbiamo nell’anima è Dio, e solo lui dà un senso ad ogni rapporto col fratello». Naturalmente non mancano le difficoltà per sperimentare l’unità chiesta da Gesù al Padre. Aurelio poi ha un concetto “disastroso” di sé: si sente un nulla, incapace di amare, ma la sua tenacia nel credere in Dio-misericordia lo porta a mettersi continuamente in gioco, andando ogni volta al di là dei limiti propri e altrui. Gli altri lo descrivono serio e capace nel lavoro, gioioso e fraterno nei rapporti, attento a cogliere la voce interiore per vivere la volontà di Dio, affinché il livello spirituale sia sempre alto con gli altri, ma senza pretendere se non da sé.
Il 28 marzo del 1968 l’incidente di cui rimane vittima. Nel suo portafogli viene trovata una lettera non finita, indirizzata – anche a nome dei suoi compagni di focolare – alla fondatrice dei Focolari Chiara Lubich: «Volevamo farti un dono, abbiamo cercato qualcosa nei nostri cassetti, qualcosa di nostro, e ci siamo accorti che non avevamo niente. Ma guardandoci in faccia abbiamo capito! Avevamo noi stessi, la nostra vita da darti. Ci siamo detti che Dio quel che più desidera è che gli offriamo tutti noi stessi, non solo le nostre gioie, ma soprattutto le nostre piccolezze, le nostre debolezze. Ci è sembrato di capire che attraverso di te questo dono poteva arrivare più in fretta in cielo…». A sua volta Chiara dirà di lui: «Aurelio è e resterà il vero frutto di Loppiano».