Aung San Suu Kyi: falsità sui rohingya
Aung San Suu Kyi, la paladina dei poveri e degli oppressi – tanto che le era stato assegnato nel 1991 il premio Nobel – ha finalmente detto cosa pensa sulla crisi dei rohingya. E lo ha fatto dopo un lungo silenzio, spiazzando non pochi osservatori. «Un iceberg di disinformazione», ha detto. Un’affermazione forte, che farà discutere e parlare tanto. Cosa ha spinto la de facto leader del Myanmar a pronunciare un’affermazione del genere?
Le ultime notizie che si hanno sulla crisi parlano di 300 mila rifugiati che sarebbero riusciti a varcare il confine e a trovare rifugio in Bangladesh, che finalmente avrebbe aperto le sue frontiere ed accolto i rohingya. I campi profughi delle Nazioni Unite hanno immediatamente chiesto un ulteriore aiuto di 7.7 milioni di dollari in cibo e infrastrutture: almeno questa povera gente, ora, ha un posto dove stare.
Due giorni fa, poi, le milizie musulmane bengalesi, come vengono chiamate in Myanmar, che combattono nello Stato del Rakhine, hanno dichiarato un cessato il fuoco unilaterale, di un mese. La risposta del governo del Myanmar è stata semplice: «Non trattiamo con i terroristi». Perciò sono continuate le operazioni per mettere in sicurezza i territori contro i loro attacchi. Di fatto, c’è una guerra strisciante, da anni, nella regione, e ciò va detto. I rohingya sono le vittime di questo conflitto che non ha solo risvolti interni, per l’appoggio che le milizie bengalesi ricevono dall’estero.
Parlandone in ambienti diplomatici che conoscono bene la regione, emergono alcuni elementi che possono essere definiti chiari, anche se spesso poco conosciuti:
- Innanzitutto, va ripetuto sempre e comunque che non c’è alcuna giustificazione politica o culturale, etica o religiosa per emarginare e fare soffrire un popolo intero, solo perché appartiene ad un’etnia particolare o per il credo religioso o il colore della pelle. In questo, il governo del Myanmar non può nascondere le sue responsabilità, soprattutto negli anni precedenti, quando c’era la dittatura militare
- Tuttavia non ci si deve prestare al gioco propagandistico di alcuni gruppi di potere nella regione, in particolare nel Myanmar, che si servono della sofferenza di questa gente per influenzare l’opinione pubblica internazionale e mettere sotto traccia le responsabilità proprie di ogni Paese. In Myanmar vi sono altri gruppi etnici soggetti ad angherie e soprusi (i karen, ad esempio) ormai da decenni, ma nessuno o quasi ne parla: perché questo silenzio su di loro mentre si parla solo dei rohingya?
- Alcune organizzazioni musulmane internazionali da anni giocano un ruolo nell’influenzare l’opinione pubblica a favore dei correligionari rohingya “oppressi” da poteri di altri fedi religiose. Ma perché, allora, alcuni Paesi della regione, di religione musulmana, non hanno accolto che pochi rifugiati, pur avendono la possibilità? Alcuni di loro hanno respinto i profughi in mare, lasciandoli in preda al loro destino di morte sicura.
- L’immane tragedia di 300 mila persone che sono, ad oggi, rifugiate in Bangladesh, poteva essere evitata se all’inizio della crisi le frontiere di questo Paese, in particolare, fossero state aperte. Non c’era bisogno di armare delle milizie musulmane per combattere la fazione buddhista in Myanmar e scatenare una crisi internazionale. Ad oggi, possiamo davvero parlare di reali gruppi armati musulmani che combattono le truppe governative del Myanmar.
- C’è poi una questione fondamentale: dove c’è una guerra ci sono persone che si arricchiscono, in particolare i trafficanti di essere umani e i venditori di armi. Anche nel conflitto tra governo del Myanmar e rohingya questi trafficanti sono all’opera.
- C’è una possibile soluzione? Bisognerebbe fermare le armi, accogliere chi fugge, calmare gli animi, in primis delle milizie buddhiste fomentate da alcuni monaci, che hanno una violenza verbale e materiale intollerabile.
- Il papa, che non ha paura di nulla, ha deciso, forse per anche per questa ragione, di recarsi in Myanmar, una delle regioni più calde del pianeta, dove si sta consumando l’ennesima tragedia umanitaria. C’è grande speranza che la sua mediazione, unendosi con la sensibilità di Aung San Suu Kyi, possa evitare in futuro la recrudescenza del caso dei rohingya.