Auditel: il bluff dei dati d’ascolto

Almeno voi non credetegli. C’è infatti una grande menzogna che tiene in piedi l’attuale universo televisivo italiano, decreta successi e sconfitte, condiziona trasmissioni e programmazione, penalizza gusti e orizzonti culturali di decine di milioni di persone. Non ne sono esenti nemmeno i tg, i cui responsabili decidono gli argomenti da presentare anche in base ai risultati del giorno precedente. Si tratta del sistema Auditel, che rileva i (presunti) dati di ascolto televisivi. Sui quotidiani viene dato grande risalto ai livelli di audience raggiunti dai principali programmi trasmessi. Sono cifre contornate da un’aura di sacralità: rappresentano la realtà vera e incontrovertibile, insindacabile e certificata di cosa la gente ha visto. Eppure, se non prendiamo tutto per oro colato, può capitare che… Facciamo un esempio. L’amara partita tra Corea del Sud e Italia ai recenti Mondiali fu seguita, secondo l’Auditel, da 23 milioni e 661 mila telespettatori, con uno share del 89 per cento (su dieci connazionali davanti al televisore nove seguirono la partita). Un risultato formidabile! Ma facciamo un po’ di somme. L’11 per cento restante, ovvero oltre 2,9 milioni di cittadini scelsero altri programmi; a questi vanno aggiunti quelli che predilessero le emittenti locali, non monitorate da Auditel, poi quanti – milioni e milioni – seguirono la partita nei luoghi di lavoro (iniziò alle 13,30 di martedì 18 giugno), nelle caserme, nei bar, nei circoli ricreativi, davanti ai maxischermi nelle piazze; va tenuto conto anche di quelli che erano al momento in ferie, o nella seconda casa (Auditel rileva gli ascolti nelle prime case); se a questo aggiungete quelli che viaggiavano, chi non era interessato e i bambini fino a tre anni, non considerati dall’agenzia di rilevazione, sarà facile pervenire ad una conclusione: in Italia, i telespettatori sono più numerosi dei residenti. Ma non è tutto. Un fatto clamoroso ha alzato il velo sul funzionamento dell’Auditel. Era la sera del 15 luglio 2000, Rai 1 trasmetteva lo spettacolo Katia e Mara… verso Oriente allestito nella piazza del duomo di Lecce. Intorno alle 21,00 un violento temporale costrinse ad un generale fuggi-fuggi. Il collegamento fu sospeso e per quindici minuti sullo schermo dominò il lento scorrere delle lancette del segnale orario. Il giorno dopo, l’Auditel diffuse un dato storico: in quel quarto d’ora di non televisione, il procedere dell’orologio aveva collezionato un pubblico superiore ai tre milioni. “Il Nulla non è solo televisivamente misurabile – commentò con la consueta arguzia Michele Serra -, ma può addirittura competere, a costo zero, con un medio varietà di prima serata, o con un buon varietà di seconda. Il 15 luglio verrà dimenticato, perché ricordarlo significherebbe licenziare migliaia di strateghi e tecnici e artisti, intere conventions di teste d’uovo di Mediaset e Rai”. E così è stato: un episodio subito cancellato. Ma che fornisce ragguagli per dubitare del sistema di rilevazione. “Non torno nella tivù dell’Auditel – ha dichiarato Renzo Arbore, nello scorso ottobre, parlando di alcuni speciali da lui curati per Raisat -. Sulla tivù satellitare siamo liberi dalla dittatura dell’Auditel che affligge chi fa televisione e chi la guarda”. Il Consiglio consultivo degli utenti ha preso sulla materia posizione critica da molti anni. Per le associazioni di telespettatori non ci sono perplessità: “Dubbia e falsa la rappresentatività del campione di famiglie. Dubbi sul comportamento delle famiglie osservate. Inopportuna la diffusione dei dati e dannosa la grande pubblicità che si dà agli stessi, perché influenzano pesantemente la programmazione televisiva”. Antonio Ricci, uomo Mediaset, inventore del Gabibbo e di Striscia la notizia, ammette con umorismo: “Preferisco credere a Dio, che almeno mi può garantire un futuro radioso, che all’Auditel, che mi assicura solo un presente terrificante”. Uno studioso al di sopra delle parti è Alberto Zuliani, docente di statistica all’università “La Sapienza” di Roma e già presidente dell’Istituto centrale di statistica: “L’Auditel nasce come strumento per stabilire le tariffe pubblicitarie delle diverse reti televisive, poi è stato “piegato” per esigenze diverse, ma se ne fa un uso improprio. Addirittura come strumento per il gradimento del pubblico “. Da qui, una perentoria richiesta: “Occorre istituire un corso di formazione per i dirigenti televisivi che utilizzano erroneamente i dati Auditel per ricavare indici di gradimento”. Ma perché non se ne parla? “La stampa, a eccezione di sporadici casi – stigmatizza Roberta Gisotti, giornalista della Radio Vaticana e autrice del libro fresco di stampa La favola dell’Auditel (Editori Riuniti) -, è allineata su un fronte comune di massima prudenza per non irritare i padroni della pubblicità, che elargiscono i fondi alle testate giornalistiche”. Tutto funziona perfettamente invece per le grandi reti televisive, per le aziende reclamizzate e per le agenzie pubblicitarie. Mai un dubbio sulle cifre. Un fatto comprensibile, dato che Auditel ha preso avvio da un accordo tra la Rai (33 per cento), l’emittenza privata (33), gli utenti di pubblicità e le principali associazioni delle agenzie (33) e la federazione editori giornali (1 per cento). Come si vede, anche se l’Auditel continua a professarsi una società super partes, in realtà è intra partes. E tra di loro hanno convenuto che il meccanismo gira correttamente, consentendo la spartizione degli oltre 8 mila miliardi (di vecchie lire) di pubblicità. Dal luglio ’97 è in funzione l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. La legge 249 che la istituì prevedeva una commissione con il compito di – udite, udite! – curare le rilevazioni degli indici di ascolto, vigilare sulla correttezza delle indagini sugli indici di ascolto rilevati da altri soggetti, effettuare riscontri sulla veridicità dei dati pubblicati. Capperi, che disposizioni! Avrebbero rivoluzionato le modalità di rilevamento, ridimensionando il ruolo di Auditel. E infatti quelle indicazioni non hanno mai trovato attuazione. La Rai, chiamata a svolgere un servizio pubblico, non dovrebbe limitarsi a partecipare al banchetto pubblicitario. Nel 1997 è stato avviato un sistema di rilevamento della qualità percepita dal pubblico. Denominato “Indice di qualità e soddisfazione” (Iqs), si basa su 600 interviste compiute ogni giorno nel novero di 8.000 persone rappresentative della popolazione. Le domande vertono sui programmi visti dagli intervistati il giorno precedente nella fascia oraria 18,30-24,00. Quali siano i risultati resta un mistero. “No, non c’è alcun segreto. Le informazioni – ci è stato detto da fonte autorevole ma votata all’anonimato – sono rese note al consiglio di amministrazione della Rai e ai principali responsabili delle reti. Consentono di tarare meglio i programmi sulla base delle attese del pubblico”. Non sappiamo quanto i rilievi Iqs collimino con i dati Auditel, o quanto invece li smentiscano nel rapporto quantità di telespettatori-qualità attesa dei programmi. Ci piacerebbe proprio verificare se tutta quella tivù spazzatura che ci viene propinata sia davvero – come replicano solerti i responsabili delle programmazioni – “quella che il pubblico vuole”. Perché non è affatto vero che non si sa come si faccia buona televisione. Alla Consulta qualità della Rai, per esempio, alcuni esperti di tivù, forti di un sano respiro etico, visionano i principali programmi, stilano valutazioni e distribuiscono tirate d’orecchie. “Oh, se ci ascoltassero”, sospira il mitico Jader Jacobelli, infaticabile coordinatore della Consulta, riferendosi ai membri del consiglio d’amministrazione Rai, i soli a conoscere le deliberazioni dell’organismo di qualità. Il problema è che i pareri non sono vincolanti, e perciò ben poco considerati. In questo luglio, il ministero della Comunicazione e la Rai stanno stilando il nuovo contratto di servizio, il testo cioè dell’accordo in base al quale viene rinnovata alla Rai la concessione del servizio pubblico. “Ebbene, un contratto più rigoroso – sostiene Jacobelli -, in cui gli obblighi della Rai in fatto di qualità siano ben precisati e non genericamente accennati, è la soluzione migliore per contrastare l’ossessione degli indici di ascolto e il condizionamento finanziario della pubblicità sui palinsesti”. Inoltre, il ministero della Comunicazione, la Rai, la Commissione parlamentare di vigilanza e l’Autorità per le garanzie sulle comunicazioni dovrebbero quanto prima dare vita ad un organismo che controlli il rispetto degli impegni in fatto di buona televisione. Con quattro padri, l’ipotizzata creatura rischia di non funzionare. Ma staremo a vedere. E i telespettatori? Costretti ad un ruolo pressoché passivo, non hanno possibilità per far sentire la loro voce. Associazioni di utenti a parte, le singole famiglie non dispongono di strumenti. La Rai ha attivato un centralino per le telefonate di protesta e di suggerimento. Grande afflusso iniziale di chiamate, seguito da un drastico calo. Motivo? Il costo era a carico dei singoli cittadini. Benedetto servizio pubblico MANNA, CENSIS DAR VOCE AI TELESPETTATORI. Per temperare lo strapotere dell’Auditel, quali proposte sono possibili? “Le prospettive sono tante – esordisce Elisa Manna, responsabile del settore Politiche culturali del Censis -. Una potrebbe essere di tipo strutturale, ovvero moltiplicare gli strumenti di rilevazione, cioè non un solo Auditel ma più Auditel. Però si creerebbe una specie di stallo all’interno dei diversi sistemi Auditel”. Cosa serve, allora? “Rivitalizzare l’indice di gradimento, cioè raccogliere una valutazione di gradimento, elaborarla e renderla, questa sì, pubblica. Si creerebbe una specie di contraltare rispetto all’Auditel. Si potrebbe perciò dire: è vero, 5 milioni di telespettatori hanno seguito quel tal programma, però dal campione sul gradimento risulta che l’hanno apprezzato solo 3 milioni”. Ma come dare voce alla gente? “In Italia abbiamo una gestione del reclamo assolutamente primitiva: innanzi tutto perché la gente non sa dove può reclamare se un tale programma lo ha offeso o contrariato; perciò servirebbe un numero verde superpubblicizzato, con una grande campagna di comunicazione in televisione e sulla stampa; secondo, questi reclami andrebbero analizzati, interpretati e resi noti”. È realisticamente praticabile ? “Prendiamo il caso dell’Inghilterra. Ogni tre mesi viene pubblicato un bollettino in cui si dice che cento persone hanno protestato contro quel tal programma della tale rete, 50 persone hanno protestato per un altro programma, con la specifica dei motivi di insoddisfazione.Tutto questo, attraverso un accordo con la stampa che dà molto spazio a questo tipo di informazioni, crea un humus culturale di crescita dei telespettatori e li mette in condizione di fare pressione. Le tivù così stanno attente a cosa mandare in onda perché temono il giudizio pubblico e la gogna sui mezzi di comunicazione”. Ma queste scelte richiedono cospicui investimenti. “Neanche tanto: servono un numero verde, un soggetto esterno al di sopra delle parti che elabori i dati e un accordo con la stampa per la diffusione dei risultati. È solo una questione di scelta politica, perché a quel punto il telespettatore diventa un giudice, e questo scoccia, perché il pubblico televisivo deve essere un consumatore, destinatario dei messaggi pubblicitari. Va invece alimentata la cultura della cittadinanza del telespettatore. Su questo credo bisogna puntare, non vedo alternative: la tivù commerciale persegue i suoi interessi; quella pubblica, finché c’è Auditel, è avvitata alla stessa logica”. ISTRUZIONI SULL’AUDITEL Ogni volta che una di quelle famiglie accende il televisore, decide per 10 mila persone. Proprio così. Sono 5.075 le abitazioni che ospitano il servizio di rilevamento dell’Auditel, il campione che sceglie e impone i gusti a nome dei 57 milioni di concittadini. Le famiglie sono avvolte nel più rigoroso riserbo. Si sa solo che sono disposte a guardare la tivù almeno quattro ore al giorno. E questa condizione fondamentale evidenzia subito che quelle famiglie non rappresentano tutte le famiglie. Quale compenso, ricevono in regalo un piccolo elettrodomestico. La rilevazione avviene in modo automatico per mezzo di una sorta di telecomando (meter) che raccoglie ogni giorno, minuto per minuto, il canale su cui si è sintonizzati. Sul meter c’è un tasto per ogni componente della famiglia che viene premuto ogni volta che la persona si pone davanti al piccolo schermo o va via. Le informazioni raccolte vengono automaticamente inviate nella notte all’Auditel. Tutto perfetto, sembrerebbe. Se non sapessimo, per esplicita ammissione di alcune famiglie che hanno fatto parte del campione, che anche loro – come in tutte le case – accendevano la tivù ma non la seguivano. I dati perciò vanno presi con le molle. Altro che foto reale del paese.

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