Attraverso mille fragilità
Sr. Tina Ventimiglia, s.f.p.
Tante Congregazioni si fanno carico delle sofferenze dell’umanità. Come Francescane dei Poveri, in particolare, quali sono quelle che incontrate e servite nel territorio di Pistoia?
Uno dei motti della Beata Francesca Schervier, fondatrice delle Suore Francescane dei Poveri, è il seguente: “Mi sono offerta a Dio per l’umanità povera e sofferente”. È dunque nel proprium della nostra Congregazione farsi carico delle sofferenze, le quali non sono altro che segni delle più varie fragilità.
Siamo a servizio nella Chiesa di Pistoia da circa 9 anni e ben presto si sono delineati i luoghi e i volti delle fragilità: in particolare, l’immigrazione clandestina e forzata, o meglio la “tratta di esseri umani” per lo sfruttamento nella prostituzione. Collaboriamo con altre Congregazioni per l’accoglienza nella Casa Famiglia “La Conchiglia” di queste giovani donne provenienti dai diversi continenti.
Di questa fragilità emerge così un volto spesso femminile, verso il quale però convergono le fragilità di molti altri: quelle mascherate nell’agire illegale e violento dei cosiddetti protettori, fino alle fragilità dei clienti che vagano alla ricerca di sesso a pagamento.
Dietro a questa maschera delle reti criminali, che sono forti ed estese, si celano ancora molte altre fragilità: la povertà di chi si lascia adescare; la corruzione di molti funzionari di polizia, ambasciate, aeroporti nei paesi di origine delle vittime e via via in quelli di transito, che arrivano a toccare le nostre strade, le nostre case, le nostre famiglie, le nostre reti sociali, le nostre istituzioni.
Questi volti di donna il cui sguardo timoroso, diffidente o sprezzante – di chi non sa più fidarsi di nessuno – ci interpellano per una risposta che parte dal cuore, o meglio dalla spinta del carisma, e non tanto da un compito che ci è stato affidato. Sperimentiamo la verità delle parole della nostra fondatrice: “Riconoscevo nei poveri e nei sofferenti il mio Divin Salvatore, così chiaramente come se l’avessi visto con gli occhi del corpo”.
Come conciliate le fragilità altrui con le vostre fragilità personali e comunitarie?
Per conciliare quelli che potrebbero apparire come “problemi” è necessario riconoscerli nella loro realtà, trovarne il senso, dare il nome. Così, le fragilità altrui, le nostre personali e quelle della comunità, prendono un significato nuovo e si caricano di un mandato che ci è stato trasmesso: “Sanare le piaghe di Cristo Crocifisso nell’umanità povera e sofferente”.
Non più, allora, realtà negative da sfuggire, scartare, rimuovere, o peggio, semplicemente da condannare, ma “piaghe” di Cristo da “sanare”. È il cammino che ci si presenta ogni giorno: non siamo mai arrivate, mai perfette, sempre bisognose noi stesse di cura e di guarigione, come quello che è definito il “guaritore ferito”. Anzi, più si fa esperienza di guarigione – personalmente e come comunità – e più si può farne dono.
Le fragilità che ogni giorno attraversiamo – rifiuto, fallimento, prove, malattia, lutti, infedeltà, incapacità di accogliere e sperare – ci pongono a fianco di chi soffre per le proprie fragilità, spesso senza averne coscienza e perciò senza poterne nemmeno cercare la soluzione.
Nella preparazione alla Pasqua mi tornava in mente sempre più forte che il male non si deve “combattere” ma “attraversare”. Cristo non ci ha liberato “dalla” morte, ma “nella” morte. Mi ripeto che ho detto il mio “si” a uno Sposo Crocifisso e che soltanto attraversando con Lui la cortina di buio e di morte quotidiana delle mille fragilità, posso lasciare il sepolcro vuoto, per una resurrezione e una gioia rinnovata.
Proprio quando le tue fragilità si fanno sentire di più e devi raccogliere le forze per non restare sotto il loro peso, è sicuro che intorno a te ne emergono altre, e così tante, che faresti volentieri a meno di farti sfiorare da esse.
Questo sia che si tratti di altre persone che delle tue sorelle di comunità. Tu torni a casa e avresti i tuoi pesi da portare, quelli della tua famiglia, insieme a quelli del servizio che svolgi. Ma incontrandoti con le altre, anche loro hanno qualcosa da consegnarti.
Così, l’esercizio è quello di farsi “vuoto” che può accogliere, cercando di rimanere “intera” nel momento presente, senza “rimasugli”, dove conta solo ciò che è volontà di Dio in quel momento e tutto il resto è chiamato a sparire. Esercizio e ginnastica che non è del tutto facile: ogni tanto per la fatica ci si ritrova “con le ossa rotte”. Talvolta si scherza in comunità dicendo che forse anche noi abbiamo bisogno di una visita dello psichiatra, quando ci troviamo ad accompagnare qualcuno.
Qual è la “molla” che vi sostiene sia spiritualmente che umanamente?
È un’attenzione nuova alla Parola che diventa vita in ciascuna di noi e nella comunità, accoglienza delle esigenze del comandamento dell’amore reciproco per contribuire alla realizzazione del Testamento di Gesù: “Che tutti siano uno”. Abbiamo sperimentato che non c’è dolore, in qualsiasi circostanza della vita, a cui non si possa dare un nome a partire dall’esperienza di dolore di Cristo Crocifisso e Abbandonato. È qui che il carisma dell’unità, donato a Chiara Lubich, ha illuminato il carisma del sanare di Madre Francesca.
Non solo riconosciamo Cristo Crocifisso nelle fragilità con cui ogni persona può presentarsi ai nostri occhi, ma scegliamo e amiamo Lui in quel dolore, per trasformarlo in amore e quindi in resurrezione, per ricomporre in unità le debolezze che hanno mandato in frantumi il disegno di Dio sulla creazione e su ogni persona umana. È una luce nuova che si è aggiunta e che meglio ci fa entrare in quella “perfetta letizia” tanto cara a san Francesco.
Quali segni di speranza riuscite a dare a tante storie senza speranza?
Per prima cosa, accogliamo la persona così come è, senza far pesare la sua condizione: è degna di amore indipendentemente dal fatto che sia innocente o colpevole della situazione in cui si trova. Poi, l’amore non fa calcoli, ama senza misura, e continua ad amare anche quando non viene accolto o capito.
Chi ama è nella luce, perciò vede e comprende in che modo compiere quelle cose concrete che si possono e che si debbono fare: il percorso sanitario per restituire la salute spesso messa a dura prova; il percorso giudiziario e amministrativo, per restituire attraverso i documenti la propria identità; l’accompagnamento nella rielaborazione del vissuto, per cogliere le risorse nascoste che ancora la persona ha in sé e riprendere a vivere, sentirsi degna di amore e capace di amare; l’offerta di una nuova rete relazionale sana che le consenta di integrarsi nel territorio con l’inserimento lavorativo e la successiva autonomia abitativa.
Ma, soprattutto, la condivisione della fede, il pregare o partecipare insieme alle celebrazioni, o la richiesta di ricevere il battesimo. E infine, non sono poche le volte in cui ti viene chiesto: “Ma tu perché fai questo per me?” come a dire che riconoscono di aver ricevuto quel “di più” che un semplice percorso di accoglienza, eseguito secondo le norme della legge, non prevedeva: è il di più che nasce dall’Amore gratuito che è il solo e unico segno di speranza!
Vittorio Casagrande, o.p.
Ci racconti la storia della tua malattia?
Mi riesce molto difficile dire in pochi minuti la mia esperienza di precarietà di molti anni vissuta con Gesù.
Ero di comunità a Montepulciano, in quel tempo (ottobre 1989), quando “di notte” Lui venne per un primo avviso. Un breve ricovero in ospedale, senza che nessuna malattia fosse evidenziata. Dimissioni, poi un continuo peggioramento, fino a quando la sera del 2 novembre, scoprii di avere la febbre a 39°. Cure, nuovo ricovero in ospedale fino a quando la notte del 22 novembre mi resi conto di aver perso definitivamente le gambe.
Ricovero presso la Clinica di Villa Ulivella di Firenze; consulto medico e avvio della terapia che bloccò il processo infiammatorio. Diagnosi: mielite acuta, multipla, trasversa. Per 49 anni ero entrato in ospedale solo per visitare dei pazienti, ora, dopo 20 giorni di malattia mi trovavo paralizzato in un letto di ospedale.
La mia vita era completamente cambiata. Il 2 dicembre 1989, finita la visita medica di routine, una dottoressa mi chiese se si poteva sedere sul bordo del letto per annotare alcuni dati sulla cartella clinica. "Certo", le risposi. E mi venne di chiedere: “Posso farle una domanda?”. "Certo", mi rispose. Continuai: “Che impressione avete avuto l’altro giorno quando sono arrivato?”. Mi guardò per qualche istante, poi rispose: “Poteva accadere di tutto e il contrario di tutto”. A domanda strana, una strana risposta.
Ma nel mio intimo sentii immediata una certezza, a cui mi venne quasi subito di dare questa forma: “Mi è stato detto che poteva accadere di tutto e il contrario di tutto (la scienza brancolava nel buio). Io solo sapevo che cosa accadeva: Tu sei amato!”. È stata come una dichiarazione d’amore. Stupore, gioia, pace, fervore, abbandono. Iniziava un nuovo Cammino che avrebbe conosciuto numerose vicende. A guidarlo, sempre, questa Parola: “Tu sei amato!”.
Quali fragilità-condizionamenti hai fatto più fatica ad accettare?
Può sembrare strano, ma dopo aver fatto quel primo passo di abbandonarmi completamente alla volontà di Dio, mi sembra di non aver incontrato particolari ostacoli o difficoltà. Era come fossi portato da Dio; ho vissuto un periodo di intensa unione con Lui, per cui tutto il resto aveva una importanza relativa, anzi era l’occasione per rinnovare l’Incontro e rimanere con Lui.
In questo clima, due sono state le cose che di tanto in tanto emergevano e richiedevano un supplemento di attenzione e di impegno per superarle. Far sapere a mia mamma, lontana e molto anziana, della mia malattia. D’accordo con le mie sorelle, abbiamo scelto di non informarla, nella consapevolezza che la notizia l’avrebbe distrutta. Quando dopo otto mesi, è stato necessario dirglielo, il Signore le ha dato la grazia di affrontare con fede e fiducia questa nuova prova dolorosa della sua vita.
L’attesa: quando io o un altro paziente chiamavamo per un bisogno, mi sembrava troppo lungo il tempo che occorreva per soddisfarlo. Il superarmi su questo punto è stato un utile allenamento per le tante situazioni di precarietà che ho dovuto affrontare nel corso degli anni che si sono succeduti.
Come hai vissuto la speranza in tutti questi anni?
Una volta fatto il “salto”, mi è stato abbastanza facile “rimanere nel suo amore”, ricominciando ogni volta che la stanchezza o l’uomo vecchio me ne aveva allontanato, sembrandomi l’unica cosa importante da fare.
Ho sperimentato, con mia grande sorpresa, di ritrovare dentro la forza di ridirgli il mio sì; di ricominciare ogni giorno “nuovo”; di non preoccuparmi per il passato o per il futuro, sembrandomi che quello che mi era dato era la cosa più importante, più santa e più solenne da vivere.
In questi anni, come si può immaginare, ci sono stati degli alti e bassi, ma sempre ho potuto ricominciare nella convinzione che Lui era lì, cioè con me, accanto a me, al punto che un giorno ho potuto dare voce a questa convinzione con queste parole: “Voglio che tu stia accanto a Me abbandonato, abbandonato”.
Per un po’ ho vacillato sembrandomi eccessiva questa chiamata, ma poi mi è sembrato di capire che non dovevo sciupare la grazia che mi era data. Ancora una volta mi sono abbandonato senza più chiedermi il “se”, il “come”, il “ma”, confidando unicamente sul suo amore.
Come riesci a trasmettere agli altri la speranza?
Intanto con la mia vita, facendo in modo che parole, gesti, atteggiamenti, sentimenti lascino trapelare quella serenità e pace che mi derivano dalla comunione che cerco di nutrire con Lui. In secondo luogo mettendomi in ascolto dell’altro, per cercare di cogliere i suoi veri bisogni, per poter dire una parola vera, un consiglio.
Poi faccio leva sulla Parola di Dio non solo studiata o meditata, ma soprattutto vissuta, perchè da lì scaturisce quella forza straordinaria che permette se non di risolvere i problemi, almeno di viverli in Dio. Sulla volontà di Dio nel momento presente, come punto di riferimento sicuro che può correggere le pulsioni egoistiche del nostro io e la nostra volontà non sempre allineata con quella di Dio. Sul momento presente, di più su “ora”, perchè è ora che vivi, non ieri, non domani, solo ora puoi dire quei sì o quei no che la vita richiede.
Quando mi sembra che la persona sia abbastanza disponibile, aggiungo anche il suggerimento chiave: cogliere in ogni dolore, l’occasione per riconoscere una particolare presenza di Gesù sulla croce nel suo abbandono dal Padre, da cui trarre la forza e l’amore per fare tutto quello che la volontà di Dio ci chiede, senza abbandonarsi a scoraggiamenti, critiche, giudizi o peggio ancora disperazione. Nella convinzione che anche per noi quel dolore, abbracciato con amore in unità a Gesù Crocifisso e abbandonato, può produrre quei frutti di grazia che tutti speriamo.
Come ultima cosa, di fronte a prevedibili cadute e difficoltà a risolversi per Dio, cerco sempre di ridare fiducia, di spingere a ricominciare, al di là di tutto e nonostante tutto, nella convinzione che Dio può portare a compimento ciò che ha iniziato in noi.