Attraversarsi

Ultimo appuntamento con "Intercultura. Report sul futuro" di Città Nuova. L' adolescenza è di per sè tempo di cambiamenti. Ancor più marcata per i giovani stranieri che hanno vissuto l'esperienza del viaggio. 
Giovani

Potenzialità, insidie e attraversamenti. È l'età del passaggio dalla condizione infantile a quella adolescenziale:  percezione di sé e modo di muoversi nella realtà. Ne parla Anna Granata nel libro "Intercultura. Report sul futuro", novità di Città Nuova editrice al suo ultimo appuntamento della rubrica.


«Per i ragazzi di origine straniera il passaggio della crescita è uno dei numerosi “attraversamenti” che caratterizzano in maniera marcata la giovane vita, cui si aggiunge l’esperienza del viaggio, per chi ricorda il Paese di origine con i suoi colori, i suoi affetti, la casa, la scuola, uno stile di vita magari edulcorato dal ricordo e dai racconti dei genitori oppure segnato dalla fuga e dalla paura per una condizione di pericolo, di guerra; l’esperienza della differenza, percepita e resa visibile quando si esce da una condizione infantile e il gruppo dei pari sottolinea e rimarca le origini “straniere” di chi è nato e vissuto in Italia ma si caratterizza per tratti somatici differenti, inusuali; l’esperienza del contrasto, tra la propria famiglia, la comunità etnica e religiosa con le sue tradizioni e il suo modo di vivere e la società italiana, rappresentata dalla città con le sue regole scritte e non scritte. Per tutti questi motivi attraversare la città significa, a maggior ragione per questi soggetti, aprirsi ad un’esperienza di crescita, di consapevolezza che si rende fondamentale e necessaria.
Per i ragazzi nati altrove, passare ad una nuova fase della vita coincide con l’abbandono del Paese di origine e aprirsi alla città ha il significato di entrare in relazione con un mondo nuovo, in maniera drastica e non graduale, per alcuni traumatica. L’esperienza del viaggio ha sovvertito la loro vita e si è impressa indelebile nella memoria, molti descrivono con chiarezza di dettagli un momento, un luogo, una sensazione precisa che ha caratterizzato il passaggio ad una nuova vita.
 
«La vita di ogni persona è dominata da un evento centrale che configura e distorce tutto ciò che viene dopo e, in una visione retrospettiva, tutto ciò che era avvenuto prima. Per me fu l’andare a vivere negli Stati Uniti, a quattordici anni. Un’età difficile per cambiare Paese. Non hai ancora finito di crescere nel posto in cui sei e nel posto in cui vai non ti senti mai a tuo agio. Io non sapevo nulla degli Stati Uniti, non ci ero mai stato. […] Nel giro di ventiquattr’ore io passai dalla fanciullezza all’età adulta, dall’innocenza alla conoscenza, dalla predestinazione al caos. Tutto ciò che mi è capitato da allora, ogni atto, minuscolo o enorme – il modo in cui adopero la forchetta o faccio l’amore, la scelta di una professione e di una moglie –, è dipeso da quell’evento centrale, quel fulcro del tempo[1].
 
«Metha racconta l’evento centrale della sua esistenza: l’esperienza della migrazione, il passaggio da una condizione di vita ad un’altra, completamente diversa. Lo sradicamento, l’essere “gettati” nel breve tempo del viaggio in una realtà nuova nella quale si ipotizza di restare almeno per alcuni anni, è un’esperienza che segna fortemente il migrante e in particolare segna l’adolescente, che vive già dentro di sé l’ambiguità di questa fase della crescita.
Molti ragazzi descrivono le sensazioni di disagio e spaesamento, quando non proprio di dolore e sconcerto, provate durante il viaggio. Sono tratti scolpiti nella memoria: il giorno, l’ora, le sensazioni, le luci, i colori, il clima così come le immagini della città sconosciuta, di una scuola e di una classe nuove, di una casa o di un “campo profughi”. Immagini indelebili, che vengono richiamate alla memoria attraverso dettagli precisi: lo sguardo della maestra, il primo giorno nella nuova scuola, la casa, piccola rispetto a quella lasciata, il senso di spaesamento dei propri genitori, una lingua mai sentita prima o, in casi più drammatici, l’esperienza del centro di detenzione temporanea, il contatto con i servizi sociali.

«Talvolta il ricordo del viaggio non è solo ricordo di una partenza e di un arrivo nell’ignoto, ma è anche il racconto di un’esperienza lunga di privazione di un luogo, della dignità, della propria umanità, come per quei ragazzi che passano attraverso l’extraterritorialità dei campi profughi.
Per i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, invece, la situazione è molto diversa, nella misura in cui conoscono l’Italia come unico luogo in cui vivere e l’italiano, spesso, come unica lingua da parlare. Questi ragazzi non provano quel sentimento di nostalgia per il passato, per una condizione perduta, per un Paese abbandonato, ma conoscono solo il presente della loro condizione. Eppure, spesso anche loro hanno chiaro un momento preciso di “attraversamento”, anche loro parlano di un “prima” e di un “dopo” che non è il “prima” del Paese di origine o il “dopo” del Paese ospitante, ma il passaggio dall’omologazione al gruppo dei coetanei ad una condizione di estraneità, in cui l’adolescente diviene spesso, agli occhi degli altri, straniero[2].

«Esiste nelle biografie dei ragazzi “di seconda generazione” un punto di non ritorno, la scoperta improvvisa e pervasiva di essere diversi. Twine parla a questo proposito di boundary events (eventi-confine), episodi che si configurano come riferimenti blandi ad una differenza, sotto forma di una domanda o di uno sguardo compassionevole, oppure come veri e propri insulti razzisti, a scuola, per strada, sui mezzi pubblici e che minano la stima di sé, condizionando l’identità di chi sta crescendo e registra con particolare sensibilità il giudizio delle persone intorno[3]. Cammino nell’atrio della scuola… la gente cammina accanto a me, affollando i corridoi. Sono una di loro. Mi vesto come loro, parlo come loro, persino impreco per essere dura con loro. Sono coinvolta nella scena, presa nel gesticolare da dodicenne. “P-A.K-I” qualcuno grida… Per me si è fermata la scena… Mi muovo tra gente bianca, seguendo solo i gesti. Mi sento come se qualcuno mi avesse scoperto. Gli occhi sono tutti puntati su di me adesso. L’intruso è stato identificato[4].
 
«L’esempio di questa ragazza canadese di origine pakistana è particolarmente incisivo: parla la stessa lingua dei suoi coetanei, frequenta la stessa scuola, indossa gli stessi vestiti, ascolta la stessa musica, ma da un preciso momento in poi viene identificata come straniera, come un intruso rispetto all’ambiente in cui è nata e cresciuta. L’episodio razzista, il fatto apparentemente innocuo di essere chiamata con l’appellativo “paki” (pakistana), segna lo svelamento di una condizione di alterità che accompagnerà la sua esistenza e che potrà portarla a sentirsi “diversa” in ogni contesto della propria vita. La scuola, il quartiere, la città nel suo complesso sono i luoghi in cui viene registrata questa differenza. La città diventa così nell’immaginario dei ragazzi l’intreccio di questi sguardi, benevoli o diffidenti, che accompagnano la loro crescita: sguardi impressi nella memoria che hanno il potere, forte, di condizionare e a volte definire l’identità di chi sta crescendo. Qualcuno racconta di essersi accorto di essere diverso il giorno che è stato spinto giù dall’autobus, a motivo della sua pelle scura o il giorno in cui qualcuno a scuola gli ha fatto trovare sul diario insulti e minacce, facendo riferimento alle sue origini. Sono definite in letteratura “minoranze visibili”, perché sono gli sguardi degli sconosciuti a individuare e mettere in evidenza il loro carattere di minoranza.

«Le reazioni dei ragazzi sono molteplici: evitare di prendere quell’autobus che ricorda la paura e la desolazione di un episodio oppure cercare un ambiente in cui ci sono persone che condividono la tua condizione di “straniero”, professano la tua religione o portano nel sangue la stessa origine etnica. Il proprio quartiere può divenire un posto da cui scappare se attraversato da sguardi minacciosi; la palestra un luogo inospitale in cui non ci si trova più a proprio agio; la scuola un ambito chiuso in cui la propria singolarità non viene valorizzata; la discoteca uno spazio proibito in cui non si può entrare se si è diventati, un giorno, stranieri. Il rischio più grande è, in questi casi, la chiusura nelle proprie case, la paura della città come ambito da cui proteggersi, in un’esistenza privata, in un’etnicità ritrovata o nata dal nulla per evitare di sottoporsi a un giudizio esterno».



[1] S. Metha, Maximum City. Bombay città degli eccessi, Einaudi, Torino 2006, p. 8.

[2] Cf. A. Granata, Sono qui da una vita, cit.

[3] F.W. Twine, Brown skinned white girls: class, culture and the construction of white identity in suburban communities, in «Gender, Place and Culture», 3, 2 (1996), pp. 57-72.

[4] M. Rajiva, Franchir le fossé des générations. Explorer les différences entre le parents immigrants et leurs enfants nés au Canada, in «Thémes Canadiens», 1, 23 (2005), p. 29 (trad. nostra).


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