Attraversare le sbarre

Dentro il carcere di san Vittore, il Vangelo degli ultimi interpella le nuove generazioni di Milano.
carceri

«Una mattina di novembre ricevo una mail con un’inedita proposta: andare ad animare la messa a san Vittore, il carcere più antico di Milano, quello che ha visto gli uomini delle Brigate Rosse in dialogo con il cardinal Martini. Sveglia alle sei per essere alle sette e mezza davanti al penitenziario, in compagnia della gelida brina invernale e di altri giovani. Don Pietro, uno dei due preti di san Vittore, ci incontra. E non solo perché si provi a infilare qualche nota intonata delle canzoni, ma perché vuole prepararci a quanto vivremo, a chi incontreremo, consapevoli che è Gesù a farci tutti uguali. Non possiamo dimenticare la dimensione dei nostri compagni di panca, che poi di panche non ce ne sono e si sta tutti in piedi! Ci siamo calati nella vita di chi fuori dalle mura ha figli, mariti, mogli, padri e madri che magari muoiono in sua assenza. Di chi non riesce nemmeno a capire come sia finito dentro, di chi rimpiange e di chi non pensa di avere un futuro. Di chi è senza vestiti e quasi senza diritti.

 

«Entrando nel carcere dobbiamo spogliarci dei nostri telefonini, rispondere all’appello, metterci a nudo davanti a raggi X e passare una serie infinita di cancelli: è dura perché ho un fortissimo senso della libertà. Ma questa volta è diverso. Non sto andando a visitare, ad assistere o a guardare.

«I detenuti sono divisi fra uomini e donne. Alle otto e mezza la messa è nella cappella maschile, uno spazio circolare al centro del quale sta l’altare. Intorno a noi delle scrivanie con i secondini. Lungo il cerchio, i cancelli ora aperti che danno sui corridoi delle celle. Li vediamo uscire e radunarsi. Molti sono dietro le sbarre. Quella sarà la vicinanza massima dalla quale potranno assistere alla messa.

 

«Cantiamo forte perché non si disperda il suono, cantiamo sorridendo e cantiamo sapendo che tutto quello che uscirà dalla nostra bocca sarà comunque meraviglioso. Andare a messa in carcere è come tornare al cristianesimo delle origini, nato per stare con gli ultimi.

«Si accede al settore femminile. La cappella è pericolante e non ci sono soldi per ripararla. Si celebra ammassati in un corridoio largo un metro, di fronte alle celle delle detenute. “Mi raccomando – ricorda don Pietro – non guardate dentro quando passate. È la loro unica intimità. Parlate, abbracciate, ma siate discreti. Vi chiederanno tanto, vi chiederanno tutto. Vestiti, fogli, segreti. Non hanno nulla e chi pensa di non aver nulla crede di poter solo ricevere”. È il giorno dell’Immacolata concezione: don Alberto e don Pietro parlano di Maria profuga, clandestina, fuorilegge. Le parole del Vangelo ci investono. Ora questo appuntamento in carcere è diventato un punto luminoso per un bel gruppo di giovani. Il Vangelo vissuto lì dentro si attacca indelebile alla pelle e al cuore e non lo dimenticherò mai. Siamo stati davvero una cosa sola, anche attraverso le sbarre».

Elena Paganuzzi

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