Attacco a Rafah, nonostante tutto
Alla fine, nonostante il consenso di Hamas alla tregua e alle condizioni poste da Netanyahu per lo scambio di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, i militari israeliani sono entrati a Rafah e controllano un corridoio lungo il confine egiziano. La gente di Gaza si era rimessa in moto per tornare verso nord lasciando all’esercito israeliano l’ultimo lembo della ex Striscia di Gaza. Nel linguaggio intransigente del governo israeliano, questo dovrebbe significare due cose immediate e un’altra annunciata. Quelle immediate sono: da qui non si esce e non entrano aiuti umanitari; l’annuncio è: i miliziani di Hamas hanno le ore contate. Come se tutto finisse qui e completata anche questa ennesima operazione, la questione fosse chiusa.
Ma questo in realtà lo ha detto e forse lo pensa Netanyahu. Mentre il portavoce militare, l’ammiraglio Daniel Hagari, nelle stesse ore, annunciava un piano dell’esercito per continuare la guerra nella Striscia di Gaza per almeno un anno. Cosa sarà rimasto di Gaza e dei civili palestinesi fra un anno non è purtroppo difficile da immaginare, mentre con molta probabilità fra un anno ci verrà rivelato che non tutti i miliziani di Hamas sono stati annientati e che quindi la caccia rimarrà aperta.
La mia sensazione è che in questa caccia al miliziano di Hamas (o al sospetto miliziano di Hamas) odio e paura abbiano già ipotecato per almeno un altro secolo una guerra senza fine che dura già da quasi un secolo. Conta ben poco chi “vincerà” questa guerra, e se e quanti ostaggi e prigionieri verranno liberati: odio, paura, fame e morte hanno già vinto. Nel nome di questo odio implacabile, chi “vincerà” la pace sembra importare ben poco ai capi di Hamas e a quelli di Israele.
In Israele, dopo l’attacco a Rafah, un gruppo di 80 familiari degli ostaggi ha scritto una lettera, pubblicata dal Jerusalem post lunedì 5 maggio. La lettera è rivolta ai ministri Benny Gantz e Gadi Eisenkot, esponenti dell’opposizione entrati nel governo di guerra all’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre.
L’editoriale del Jerusalem post, riporta: «Noi membri delle famiglie degli ostaggi guardiamo con orrore ciò che sta accadendo. Netanyahu sta deliberatamente facendo naufragare l’accordo e abbandonando gli ostaggi fino alla morte. Entrare a Rafah adesso è una condanna a morte per gli ostaggi. L’annuncio di Netanyahu che non è lui ad affondare l’accordo è una falsa dichiarazione e getta polvere negli occhi del pubblico». E rivolgendosi direttamente a Ganz e Eisenkot, gli estensori della lettera aggiungono: «Siete diventati delle comparse nello spettacolo delle accuse e del siluramento di Netanyahu, che ha per significato l’abbandono degli ostaggi verso la loro morte… Voi avete giustificato la vostra permanenza nel governo per liberare gli ostaggi. È giunto il momento di voltare ogni pietra per restituirli».
In calce ad un interessante daily focus intitolato “Gaza: la tregua che non c’è” (ispionline.it, 7 maggio), Ugo Tramballi (senior advisor Ispi) scrive in un commento: «Con l’accordo di tregua, il rischio di permettere ad Hamas di sopravvivere alla guerra c’è. Ma dopo sette mesi prevalgono la volontà e l’interesse di fermare questa guerra e di togliere di mezzo gli estremisti palestinesi di Sinwar [uno dei leader di Hamas] con mezzi più politici che militari. È un’ipotesi che per Netanyahu equivale a una fine politica. Nelle prossime ore sarà interessante capire se una o entrambe le parti di un Israele bicefalo abbiano detto no al sì di Hamas: se solo gli alleati nazional-religiosi del governo di estrema destra o anche tutti i membri del gabinetto di guerra composto anche dalle opposizioni».
Se a questi temi e tensioni interne a Israele, aggiungiamo la pur blanda minaccia del presidente Usa, Biden, di non consegnare più armi allo stato ebraico (per ora si dice che non è stata consegnata l’ultima fornitura di munizioni), il quadro internazionale occidentale finora di quasi “granitico” sostegno alla politica aggressiva del governo israeliano entra in fibrillazione. Le proteste studentesche pro Gaza in molte Università statunitensi (e di mezzo mondo, visto che sembrano iniziare perfino in Paesi arabi non ostili a Gerusalemme, quelli degli Accordi di Abramo) sembrano aggiungere nuove riserve sulla già precaria possibilità di rielezione di Joe Biden alla presidenza Usa.
Per adesso, però, a Rafah l’esercito israeliano continua a bombardare e ad uccidere insieme a qualche miliziano di Hamas anche qualche centinaio di civili palestinesi.
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