Atleti davvero speciali.
Orazio Fagone è un ragazzo con una passione smisurata per lo sport. Ha iniziato a soli quattro anni. Pattinaggio a rotelle. Successivamente si è avvicinato allo short track. Disciplina in cui, a Lillehammer ’94, ha vinto l’oro olimpico. Poi, quando un terribile incidente stradale lo ha costretto su una carrozzina, è passato al curling. In questi ultimi anni ha dedicato tante ore all’allenamento, inseguendo il sogno di partecipare nuovamente ad una Olimpiade. E c’è l’ha fatta. Nell’hockey … Orazio è stato uno dei quasi 500 atleti diversamente abili di 39 nazioni che dal 10 al 19 marzo si sono ritrovati a Torino per la nona edizione delle Paralimpiadi invernali. Ragazzi e ragazze per i quali lo sport non rappresenta solo un’occasione per reagire. O uno strumento terapeutico. Sulle piste di Sestriere e di Pragelato, o nei palazzi del ghiaccio di Pinerolo e Torino, hanno infatti gareggiato per sfidare soprattutto sé stessi, per migliorare i limiti precedentemente stabiliti, per battere primati. Hanno partecipato per sfidare altre donne, altri uomini. Perché per loro lo sport è essenzialmente una sfida agonistica. Atleti a tutti gli effetti in grado, attraverso un durissimo allenamento, di offrire spettacolo, competizione, voglia di vincere. Così, dopo che la nostra Isolde Kostner aveva idealmente spento il braciere durante la cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici di Torino 2006, la gioia dello spirito olimpico è tornata ad affacciarsi nel capoluogo piemontese e nelle sue montagne. Grazie a questi atleti che, nonostante i più svariati limiti fisici, non hanno rinunciato ad inseguire il loro sogno, non hanno potuto mettere un freno alla loro passione per lo sport. L’aria che ha potuto respirare chi ha passato un poco di tempo insieme a questi ragazzi è stata davvero speciale. Perché loro riescono a guardare oltre le rispettive problematiche esterne. Perché sanno andare oltre lo stupore derivato dal fatto di vedere gareggiare un atleta senza una gamba o senza le braccia. Per loro tutto questo è normale. Così li trovavi a parlare in tutta semplicità di una prestazione da migliorare, di un record da battere. In pieno spirito sportivo. Durante i giochi, sono stati impegnati in cinque discipline: biathlon, sci alpino, sci di fondo, curling e hockey. Con regole molto simili a quelle delle più celebrate Olimpiadi, e qualche necessaria modifica. Nell’hockey su slittino, ad esempio, i cambi volanti dei giocatori, le cariche alle balaustre, ma anche le dimensioni della pista e delle porte sono identiche al tradizionale hockey su ghiaccio. Cambiano solo le dotazioni tecniche degli atleti: uno speciale slittino, e due mazze da gioco che servono sia come spinta che per colpire il disco. Sport ad altissimo livello, dunque. E pensare che l’attività agonistica tra diversamente abili ha una storia ancora abbastanza breve. Tutto ha avuto inizio infatti negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale quando un neurologo e neurochirurgo tedesco, Ludwig Guttmann, creò su richiesta del governo britannico un centro per aiutare alla riabilitazione tanti lesionati spinali reduci dal conflitto mondiale. Guttmann ebbe la brillante intuizione di introdurre lo sport con un duplice scopo: ricreativo e, al tempo stesso, riabilitativo. Da allora sono stati fatti grandi passi avanti. E se in occasione delle prime Paralimpiadi, disputate a Roma nel 1960, parteciparono solo atleti paraplegici, progressivamente le competizioni paralimpiche sono state estese agli atleti con altre disabilità. Così oggi vi gareggiano amputati, para e tetraplegici, ma anche ipovedenti e non vedenti. Ognuno impegnato in diverse categorie a seconda del tipo di disabilità. Con il tempo il clima di solidarietà che aveva caratterizzato inizialmente questa manifestazione, e che poco ha a che vedere con il vero senso dello sport, ha lasciato spazio ad un sempre più elevato livello tecnico e organizzativo. E se diversi atleti che abbiamo visto gareggiare a Torino lavorano, oltre a fare dello sport, sono in continuo aumento i casi di quanti sono da considerarsi dei veri e propri professionisti, che per arrivare a disputare una Paralimpiade si impegnano anni ed anni con uno spirito di sacrificio pari a quello di ogni altro atleta olimpico. Stesso sacrificio, stesso impegno, stessa passione. Viene da pensare che spesso la vera differenza con gli atleti normodotati non stia tanto nell’aspetto fisico quanto in quello… economico. E, paradossalmente, è forse proprio questo il più grande handicap che debbono sopportare questi sportivi. Atleti che hanno fatto del dolore il loro linguaggio quotidiano. Ma, proprio per questo, hanno sviluppato un’affinità del tutto particolare, un legame che accomuna loro, i loro assistenti, le loro famiglie. Ecco allora che la Paralimpiade appena conclusa è diventata una grande festa per tutti, aldilà delle medaglie vinte o perse. Al termine di quasi un mese di competizioni, tra Olimpiadi e Paralimpiadi, il messaggio che da Torino lancia lo sport, ed in particolare quello praticato a così alto livello, è che vi sono solo abilità diverse e non minori abilità. E non importa se alcuni atleti utilizzino guide (come nello sci alpino) o segnali acustici (come nel biathlon), carrozzine (come nel curling) o particolari slittini (come nell’hockey). Perché ogni sportivo può soffrire, gioire, emozionarsi e fare emozionare come tutti gli altri.