Atlante incompleto

La reazione politicamente più significativa alle dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad sulla distruzione dello stato di Israele è venuta dall’autorità nazionale palestinese. I palestinesi, come buona parte dei governi del mondo (tra cui quello italiano, che ha protestato duramente con l’ambasciatore iraniano a Roma), non hanno affatto gradito tali gravi esternazioni. Invece di perseguire la cancellazione dalle carte geografiche di uno stato che già c’è – hanno più o meno detto i palestinesi – sarebbe assai più saggio puntare a mettere sul mappamondo uno stato che ancora non c’è: la Palestina, appunto. Il regime iraniano non è nuovo a queste prese di posizione estreme. Quello che è nuovo è tuttavia il contesto: da decenni nessun uomo politico iraniano di spicco aveva riattizzato in modo così esplicito la fiamma dell’odio anti-israeliano. Molti si sono chiesti perché questo sia accaduto e soprattutto perché adesso. Non pochi osservatori ritengono che l’uscita di Ahmadinejad sia in realtà un segno di debolezza anziché di forza. Risultato sorprendentemente vincitore alle elezioni presidenziali del giugno scorso, grazie al sostegno della base più dura e pura della rivoluzione khomeinista, oltre che in virtù di un populismo di stampo vagamente latino- americano, Ahmadinejad si è rivelato subito un problema per i settori più aperti e responsabili della classe dirigente iraniana. La reazione del neo-eletto presidente, nella forma di prese di posizioni plateali e demagogiche, non si è fatta attendere. Certo, in questo momento di tutto aveva bisogno l’Iran fuorché di una mossa così controproducente. Messo sotto osservazione dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) a causa di un programma nucleare semi-clandestino, e chiamato a dare segnali rassicuranti al riguardo nel contesto di un difficile negoziato con tre paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Germania), l’Iran ha finito per mettersi tutti contro. Persino la Russia, che collabora con Teheran nella realizzazione di un reattore nucleare civile nella località di Busher, è rimasta sconcertata. Quello del programma nucleare iraniano è un problema serio. Il paese è ricco di petrolio e di gas, e non sembrerebbe proprio aver bisogno di centrali nucleari. Da qui a concludere che i mullah di Teheran intendano fabbricare l’arma nucleare, il passo è assai lungo. Certo è che l’Aiea sta conducendo una ricognizione seria sulle intenzioni di Teheran, e alla fine di novembre vi saranno nuove decisioni. Una possibilità è che l’Iran sia deferita al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per violazione del Trattato di non proliferazione nucleare, di cui è firmatario. Un esito che farebbe aumentare enormemente la tensione in un’area del mondo che è già sull’orlo di una crisi di nervi.Sullo sfondo, fanno capolino altri problemi: fino a che punto l’Iran estende la sua influenza nel nuovo Iraq, coltivando rapporti preferenziali con gli sciiti iracheni? Che tipo di appoggio assicura Teheran agli Hezbollah in Libano? Che consistenza reale ha la minaccia rivolta alla stessa sopravvivenza di Israele? Sono interrogativi preoccupanti, che trovano in parte spiegazione nella situazione critica in cui si trova oggi il Medio Oriente. Molti iraniani affermano in modo semi-serio che l’Iran confina con gli Stati Uniti ad est ad ovest. Sì, perché l’esercito americano è presente sia in Afghanistan che in Iraq, e l’Iran percepisce di trovarsi in una situazione di accerchiamento. Tutto ciò ovviamente non fornisce alcuna giustificazione alla retorica dell’odio e del rancore, né può far dimenticare le sistematiche violazioni dei diritti umani che hanno luogo in Iran (con l’imprigionamento arbitrario di giornalisti ed oppositori). A ben guardare, il problema non è tanto il programma nucleare né la scriteriata politica dello scontro totale con Israele. Questi sono effetti, per quanto gravi e preoccupanti; la causa è nella natura di un sistema politico sotto tutela, che conserva solo le parvenze della democrazia (con la formale tenuta di elezioni) ma che non è ha la sostanza, e cioè la libertà, la partecipazione politica senza restrizioni, la distinzione dei ruoli tra potere politico e potere religioso. Ciò che più duole è che Ahmadinejad strumentalizzi il sentimento religioso e lo utilizzi come una clava, invece che come un ramo d’ulivo, e che rinneghi, così facendo, la comune eredità dei figli d’Abramo. La speranza, come auspica Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace del 2003, può forse venire dall’interno dell’Iran, ed in particolare dalle nuove generazioni, in un paese che è costituito in buona parte di giovani al di sotto dei trent’anni, e che un giorno potrebbero decidere di prendere in mano il proprio destino, senza più tutele e strumentalizzazioni. Quel giorno, un nuovo paese apparirebbe sul sempre incompleto atlante della pace, e saremmo tutti felici di aggiungercelo.

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