Aspettando il papa a Tirana
Manca una luna e saranno due anni che ho fatto dell’Albania la mia nuova casa. Troppo poco per darne pareri definitivi, forse abbastanza per condividere impressioni un po’ meno superficiali di quelle proferite da chi la viaggia con la guida turistica sottobraccio.
Il primo ricordo risale a quando ancora non ero arrivato a toccarne il suolo, ormai s’era fatto buio da un pezzo e l’aereo aveva cominciato la manovra di atterraggio all’aeroporto di Tirana. Vedevo sotto di me poche, pochissime luci ed ugualmente scarse mi parvero lungo la quindicina di chilometri di strada che conduce all’ingresso della capitale.
Il ritmo di vita degli albanesi è decisamente regolato su quello della luce naturale, tanto che, in principio, mi sembrava la giornata venisse vissuta solo a metà. Poi capii che bastava anticipare d’un paio d’ore la suoneria della sveglia, come se mi fossi spostato in altro fuso orario.
Mi ha sorpreso spesso, con le sue due facce, l’Albania(non a caso ha per simbolo l’aquila bifronte!) e continua a farlo, nonostante cominci ad esserci avvezzo. Mi trovo nel centro di Tirana e mi scorrono davanti agli occhi una pletora di mostri a quattro ruote di abnorme cilindrata o altre scene di modernità quali potrei vedere in qualsiasi altra città europea. Mi allontano solo di qualche isolato, o raggiungo un villaggio appena fuori città, e m’imbatto in situazioni che mi fanno chiedere se per caso non sia finito in una macchina del tempo che m’ha catapultato indietro al tempo dei bisnonni!
Un aereo in partenza per Istanbul e un altro per Roma raccontano l’eterna sospensione di questa regione, con un occhio verso la terra dove il sole sorge e l’altro in quella dove va a posarsi. La risacca degli eventi storici distesi nei secoli l’ha via via orientata ora da una parte ora dall’altra, al pari dell’onda marina che viene continuamente scagliata verso la battigia per essere quindi risucchiata verso il mare. Ed è stato così che in questa terra oggi convivono in modo esemplare sia musulmani (sunniti e bektashi) che cristiani (ortodossi e cattolici).
Soprattutto i più giovani inevitabilmente cercano i propri riferimenti culturali verso Occidente. Da esso purtroppo prevale l’offerta di liberismo sfrenato e consumismo, moderno versione del “gatto e la volpe” alle cui promesse di felicità è difficile sottrarsi, specie per chi è appena riemerso dal buco nero di una dittatura comunista di stampo stalinista che ha fagocitato due generazioni, annichilendo la dignità della persona umana.
Ma l’Albania sa correre veloce, i progressi sembrano viaggiare a velocità doppia, tripla rispetto altrove. Lo sforzo di modernizzazione comincia a far vedere i suoi frutti, tra i più evidenti quelli nel settore della viabilità. Oggi, per esempio, molto meno che in passato corro il rischio che le ruote affusolate di Filippa, la mia bici da corsa che mi accompagna alla scoperta del Paese, vengano inghiottite da un tombino aperto – perché il coperchio ne è stato rubato nottetempo – o da una buca più simile a un cratere.
È questa la sfida titanica che, mi pare, l’Albania è chiamata a vincere, prima ancora che quella puramente economica: ricostruire il proprio tessuto sociale e di valori mettendo al centro la persona, trovando la propria via ad un umanesimo che sappia rispondere alle esigenze moderne attingendo alla tradizione.
Questo patrimonio culturale, elaborato durante i secoli e condiviso monoliticamente dalle varie fis – le famiglie allargate, vero fondamento della struttura sociale albanese – costituisce il sentimento comune dell’albanese, ed è dato da un senso elevatissimo dell’ospitalità, di accoglienza dello straniero (se ti trovi in un bar e scoprono che sei straniero, fanno a gara per offrirti qualcosa!), di rispetto per la parola data e l’onore familiare, dall’importanza assoluta riconosciuta alla famiglia patriarcale. L’identificazione in questi valori, molto più che l’appartenenza ad un territorio, rende un albanese tale, al punto che si afferma che l’ “albanesità” sia la religione degli albanesi.
Urge scoprire l’importanza dell’esercizio della responsabilità individuale nella ricerca del bene comune; uscire dall’individualismo cieco per abituarsi alla cooperazione virtuosa; creare una cultura del lavoro che costituisca un vero arricchimento per il Paese e non invece una mera occasione del singolo per riempirsi le tasche di denaro, più o meno pulito.
Esercizio non facile, per chi ha visto i propri valori di riferimento finire nel tritacarne della propaganda di regime per venire esautorati dei loro significati costruttivi e fondanti e poi piegati alle necessità dell’ideologia. Eppure essi non sono andati smarriti del tutto, continuano a vivere nelle coscienze di tanti.
Perché l’aquila albanese possa finalmente spiccare il volo c’è bisogno di impulsi culturali positivi (formidabile appare in questo senso la possibilità, in prospettiva, di entrare a far parte dell’Unione Europea), oltre che di investimenti economici che però da soli non bastano perché al massimo possono generare ricchezza materiale, di cui non è detto che beneficerebbe l’intera popolazione.
Occorre dunque, qui più che altrove, che essi vengano accompagnati da forti iniezioni di valori etici d’alto respiro e promozione umana, senza dei quali la ricchezza non si trasforma in benessere.
È quanto ha sapientemente colto papa Francesco affermando di aver concepito il suo prossimo viaggio in Albania, il 21 settembre, come «un vero aiuto a quel nobile popolo». E gli albanesi hanno già preso a rispettarlo ed amarlo.