Ashely, disabilità ingombrante
F antascienza. Sì, fino a quanto non è comparsa la notizia della vicenda della piccola Ashley, il fatto poteva essere annoverato tra la letteratura di fantasia di un futuro ancora remoto. E invece la bambina statunitense di Seattle è tutt’altro che un’invenzione narrativa. È viva e vegeta, anche se, dicono, resterà bambina. A tre mesi le viene diagnosticata un’encefalopatia statica, un handicap che le avrebbe bloccato lo sviluppo del cervello e impedito l’uso della parola e delle gambe. I medici hanno consigliato di congelarne la crescita, con un intervento per asportare utero e mammelle e una terapia di estrogeni. I genitori, due professionisti, hanno dato il loro consenso. Adesso pesa 34 chili, è alta 1 metro e trenta. E così resterà. Pare. Una scelta compiuta, dicono loro stessi, per garantire alla figlia una migliore qualità della vita. Genitori sprovveduti? Medici cinici? Tutti hanno sparato su tutti, ed in gran fretta, senza la possibilità di capire a sufficienza. Per questo interpelliamo con Marco Espa, vice presidente nazionale dell’Associazione bambini cerebrolesi (www.associazioneabc.it), marito di Ada e padre di Chiara, diciannovenne con una grave disabilità associabile a quella di Ashley. Che conclusioni ha tratto da questo episodio? Grande rispetto per tutti ma… mi sembra un’americanata. Scientificamente impossibile. Ashley crescerà anche neurologicamente e invecchierà. Sono d’accordo sul tentativo di bloccare o arginare i problemi che possono subentrare con la pubertà come, ad esempio, febbre alta o crisi epilettiche in coincidenza con il ciclo, anche attraverso cure ormonali. Ma non di bloccare la crescita. Piuttosto, il mio timore è che si voglia far passare interventi di questo tipo come conquiste del progresso. Mi ricordano le pratiche naziste del famigerato progetto T4, con cui sono state sterminate migliaia di persone con disabilità proprio perché disabili. Allora come oggi si sostiene che, siccome i costi dell’assistenza per un disabile grave adulto sono troppo alti, si deve fare selezione prima. Seguendo questo logica, arriveremo al Dateci la possibilità di uccidere i neonati con disabilità gravi, l’agghiacciante richiesta fatta lo scorso mese dal Royal college of obstetricians and gynaecologists di Londra. ¦ Quanto ha pesato la convinzione che i figli siano una proprietà esclusiva? Credo non più di quella di una qualsiasi famiglia. Qui invece ci sono gravissime responsabilità etiche del mondo scientifico, ovvero dei professionisti che hanno forse suggerito essi stessi cosa sperimentare per bloccare la crescita di Ashley. Probabilmente, c’è stata molta solitudine, è mancata la possibilità di fare rete con altre famiglie nella stessa situazione, scambiarsi le esperienze. Però diciamola tutta, per non cadere nella retorica: la non autosufficienza è una questione che riguarda tutti. Così come ci facciamo carico delle spese per la difesa o per l’istruzione, è un dovere istituzionale sostenere realmente, con servizi personalizzati e coprogettati le persone con disabilità e le loro famiglie. Non discriminare vuol dire riconoscere i diritti di cittadinanza. Non si può giustificare l’eliminazione della diversità basandoci su difficoltà e problemi sociali ed economici. Tuttavia, alcuni sostengono che un disabile in famiglia finisca per creare situazioni rovinose per sé stesso e per i familiari. Condivide? Assolutamente no. Lo sappiamo: qualsiasi famiglia può essere patogena, violenta, disgregata, pur non avendo figli disabili in casa. Guai a demonizzare la famiglia, considerando il suo dover essere come quello propinatoci dagli edulcorati spot pubblicitari delle merendine. Se spesso si manifestano al suo interno le situazioni più difficili, la famiglia, se sostenuta, ha risorse proprie di solidarietà e gratuità che né lo stato, né il privato possono sostituire. Centinaia di famiglie di disabili in situazione di gravità ne sono testimoni. Nonostante una vita dura e difficile, possono dire di essere, significativamente, orgogliosi dei loro figli.