Ascoltando il Requiem

Il Mozart degli ultimi anni, diverso, non ilare, quasi alla ricerca di una luce, del vago senso dell’infinito che gli passava nell’animo. Ma qui il brivido è trasceso dalla poesia, dal timore che si fa preghiera. Un Requiem fresco e giovanile nell’esecuzione dell’Accademia di S. Cecilia
S. Cecilia

All’Accademia romana di Santa Cecilia è ritornato il Requiem in re minore di Mozart, l’ultima opera, incompiuta, del musicista, avvolta da una sorta di leggenda nera. Tutte fantasie. Quel che è importante è rendersi conto che questo capolavoro, la cui forza e bellezza sta anche nella sua incompiutezza – così come la celebre Sinfonia n. 8 in Si minore di Schubert, detta perciò Incompiuta –, esprime un clima di alta religiosità che commuove.

 

Una religiosità non cupa, come troppo spesso si è detto, ma presaga certo di mistero, dolente e misurata come Mozart sa fare. L’Introitus, sostenuto dai corni di bassetto e dall’organo, è l’unica parte interamente scritta da Mozart ed occorre dire che questo “ingresso” preannuncia un tono di sospensione, un senso affranto anche se equilibrato, che percorre l’intero Requiem anche nelle parti – molte – terminate dagli amici di Mozart, come Sussmayer.

 

È un Mozart diverso quello degli ultimi suoi anni, non è ilare, ma sembra alla ricerca di una luce, per cui la sua orchestra cerca nuove sfumature, nuovi timbri ad esprimere un qualcosa d’indistinto, di vago senso dell’infinito che gli passava nell’animo. Il Dies irae, il numero più vasto dell’opera, diviso in sezioni diverse – di cui cinque composte da Mozart in forma abbreviata (soli e coro completi, orchestra con alcune indicazioni) – è monumentale, ma non alla maniera di Verdi o di Brahms.

 

Se il Tuba mirum con il basso ed il trombone, nella sua essenzialità genera tremore, l’incipit è solenne e timido e sparge davvero un brivido. Non è lontano l’eco dell’ultraterreno Commendatore nel Don Giovanni. Ma qui il brivido è trasceso dalla poesia, dal timore che si fa preghiera, non c’è un michelangiolesco travolgimento del tutto, come nei compositori di cui sopra.

 

Alla fine del Requiem, si rimane con l’animo pieno di un sospiro che sembra essere durato tutto il brano, il sospiro per la vita che si lascia e per quella che si spera di trovare, con le ultime battute intrise di lacrime di richiesta e di abbandono.

 

L’esecuzione ceciliana non è stata né retorica, nè solenne né catastrofica, come spesso si sente. Il giovane direttore Andrés Orozco-Estrada, ben sicuro di sé ha voluto una interpretazione slanciata – Mozart in fondo aveva 35 anni! –, vibrante e tesa, senza eccessi nel pathos. Così la compagnia di canto molto buona (eccellenti il soprano Rachel Harnisch, il mezzosoprano “rugiadoso” Marianna Pizzolato) si è trovata a delineare poeticamente e senza languori il testo mozartiano, sostenuta dalla compattezza del coro e dall’orchestra in cui legni e ottoni hanno brillato.

 

Un Requiem fresco, giovanile, melodico e al contempo pieno di sospiri trattenuti a stento. Con Mozart c’è sempre qualcosa di nuovo.

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