Asante Africa 2018
Asante (grazie) è certamente la prima parola in swahili che si impara venendo in Kenya, e i giovani venuti quest’estate per il progetto “Asante Africa” hanno avuto modo di pronunciarla e sentirla moltissime volte.
Ma andiamo con ordine. Chi sono i protagonisti? Venti giovani dai 18 ai 30 anni provenienti da vari Paesi (Brasile, Argentina, Mexico, Bolivia, Spagna, Italia, Uganda e Kenya) e 5 adulti che hanno accompagnato e sostenuto la logistica. Dunque una rappresentanza di vari continenti molto variegata, con background, stili e scelte di vita molto diverse; dal seminarista al non credente, dalla neo-diplomata alla professionista, tutti attirati dall’idea di spendere un mese delle loro vacanze per conoscere la realtà locale e dare il loro contributo concreto.
Dunque una specie di volontariato? «Non esattamente – tengono a precisare i giovani stessi organizzatori del progetto –. Potremmo piuttosto chiamarlo: volontariato fraterno. Non volevamo venir qui solo per fare qualcosa per i bisognosi. Volevamo piuttosto costruire rapporti sinceri innanzitutto tra noi e poi con le persone che avremmo incontrato nei vari posti in cui ci saremmo recati». Un’altra ragazza aggiunge: «Per me era anche la possibilità di mettermi alla prova, per scoprire me stessa e le mie potenzialità».
Per chi proveniva dalla cultura occidentale, trovarsi immerso nel contesto africano, con tutta la sua ricchezza ma anche con le contraddizioni e sfide, è stato uno choc salutare. I giovani visitando il Progetto Magnificat del Movimento dei Focolari nello slum di Mathare a Nairobi, sono rimasti colpiti: «I momenti passati a Mathare mi hanno toccato. Vedere che queste persone non hanno niente, ma ti accolgono sorridendo, soprattutto i bambini, mi ha messo in crisi. Ho cominciato a pensare alla mia vita, a quello che faccio, a quello che potrei fare», così si confidava Federica di Pescara. Ma come lei tanti altri… anzi: tutti! Per esempio Milena (Bari): «La giornata a Magnificat (Mathare) ci ha aiutato ad aprire le braccia a gente sconosciuta e ci ha permesso di amare il diverso per quello che è, senza troppi pensieri o parole, solo con lo sguardo pieno d’ amore».
Forse anche per aver vissuto queste forti esperienze, i giovani hanno voluto organizzare un momento di riflessione sul “senso della vita”, aiutati dalle parole del dottor Roberto Almada – psichiatra, sacerdote e focolarino –, collegato via internet da Roma.
Una seconda dimensione da affrontare era la sfida di creare rapporti autentici e profondi all’interno del gruppo stesso. Come fare per non rimanere nel rapporto con gli altri ad un livello solo superficiale? I giovani membri del comitato organizzatore hanno proposto di ritrovarsi periodicamente ogni 2-3 giorni per un momento libero e spontaneo di condivisione. C’è da notare che, nonostante la stanchezza che si andava accumulando, tutti hanno sempre partecipato e via via trovato la forza di comunicare le esperienze più profonde: le gioie ma anche i travagli.
Infine la dimensione sociale. «Ci siamo prefissi di costruire rapporti di unità con le varie comunità che ci hanno ospitato e alle quali ci siamo proposti di dare il nostro piccolo contributo», racconta ancora uno degli organizzatori.
«Abbiamo iniziato conoscendo la Mariapolis Piero del Movimento dei Focolari, centro internazionale per la formazione, che promuove l’inculturazione del Vangelo nelle tradizioni africane. Ci siamo sentiti amati, accolti. Ma i bambini della Rainbow Nursery School presente nella Mariapoli hanno dato il tocco in più, spingendo tutti noi ad andare oltre le barriere della cultura e della lingua, per improvvisare giochi e animazione spontanea con loro».
I giovani hanno lasciato un segno permanente dipingendo dei bellissimi murales che parlano di integrazione e di pace, visibili da chiunque transita nella strada principale davanti alla Mariapoli. Dicevano: «La Mariapoli è una conferma, è esattamente la città ideale, il “locus amenus”… un luogo che accoglie tutti coloro che sono davvero liberi di amare».
La seconda parte del progetto prevedeva il trasferimento in matatu (pullmino) alla “Fazenda da esperanza”, dove per circa due settimane hanno condiviso la vita degli ospiti di questo centro che si prefigge di aiutare persone cadute in vari tipi di dipendenza a cambiare la propria vita.
«L’esperienza qui in Fazenda – racconta Ivan, responsabile del centro di Iriamurai (Kenya) –, si fonda su tre pilastri che tutti sono tenuti a vivere: la crescita spirituale mediante vari momenti giornalieri di preghiera e meditazione, la vita comunitaria e il lavoro. Il gruppo di giovani di Asante Africa si è pienamente inserito nel nostro stile di vita portando un bellissimo contributo che nessuno di noi dimenticherà».
Naturalmente non sono mancati momenti di svago e di distensione. Memorabili le sfide calcistiche: Fazenda vs Asante Africa. Nell’ultima c’era in palio una bella tosatura delle teste perdenti. Com’è finita? Diciamo che i giocatori della Fazenda hanno ottenuto i loro scalpi!
L’ultima parte del progetto si è svolta nella regione di Turkana nel nord del Kenya. Raccontano. «Appena si atterra nel piccolo aeroporto di Lodwar si resta colpiti dall’ambiente quasi desertico. Ci vogliono più di 4 ore per percorrere i 120 Km di pista che ci portano a Kakuma. Rara vegetazione, enormi termitai grandi come colonne, ogni tanto qualche operaio della ditta cinese che sta costruendo la strada. Dopo parecchio tempo vediamo il primo centro abitato: capanne costruite con rami, argilla e qualche sacco vecchio. Qui le condizioni sono ancora più estreme. Colpisce la povertà assoluta, la scarsità d’acqua che va cercata anche scavando nella sabbia del letto di fiumi prosciugati. Eppure quando arriviamo le donne della parrocchia ci accolgono con una danza tipica che ci coinvolge e ci fa danzare e saltare! È difficile descrivere l’esplosione di gioia che esprimono. Qui saremo al servizio della comunità locale lavorando concretamente alla sistemazione e ritinteggiatura di alcune aule delle scuola primaria e di un reparto dell’ospedale. Iniziando i lavori alla scuola abbiamo la bellissima sorpresa di trovare i bambini ad accoglierci per un saluto. Ma da subito vogliono aiutarci a sistemare la “loro” scuola; così per tutti i giorni che siamo rimasti lì. Il lavoro all’ospedale è ancora più faticoso e senza i bambini a rallegrarci. Ci viene anche il dubbio che non riusciremo mai a finirlo. Ma che gioia quando lo vediamo completato giusto in tempo. Partiamo con la gratitudine della gente e con l’invito a tornare anche il prossimo anno».
Ascoltando le loro testimonianze ci si rende conto che ci sarebbero ancora tantissime cose da raccontare, ma la più importante e all’unanimità è: «Un grazie a questa terra che ci ha accolto e che ci ha permesso di vivere una straordinaria esperienza». E allora diciamola anche noi con loro: “Asante Africa”!