Artisti in erba doppiamente abili

Una famiglia musulmana, lei artista, lui funzionario statale. Dedicano la loro vita ai piccoli meno favoriti.
Gulsara Radjapova

Non è poca cosa l’incontro che questa mattina mi capita con una coppia di musulmani, Gulsara Radjapova e suo marito Avashan. Con loro c’è la figlia Suraya. Uzbechi al cento per cento, abitano in un sobborgo della capitale, in una abitazione che è una tana di Ali Baba e un piccolo scrigno di bellezze. Gulsara è scultrice, ma ora si occupa di bambini sfavoriti. Una vicenda commovente.

 

«A Lione, ho avuto anni fa la possibilità di visitare un centro per bambini portatori di handicap – mi racconta –, che venivano curati grazie all’arte e alla pittura. Tornata a casa mi è nato in cuore il desiderio di fare qualcosa di simile, di mettere a disposizione la mia capacità creativa per aiutare chi ne aveva bisogno. Ma non avevo soldi. Poi, per caso, sono capitata a una mostra di disegni di bambini disagiati. Basta, non c’erano più scuse, dovevo muovermi».

Guslara aveva un’esperienza familiare non da poco, perché a casa sua dopo tre figli naturali, i suoi avevano adottato sette bambini orfani! Prese quindi il coraggio a due mani e affrontò suo marito, confessandogli il suo desiderio, quasi un imperativo categorico. Lui, però, aveva un buon lavoro al ministero dell’Educazione nazionale e non voleva perderlo. Un po’ più tardi decise poi di aderire: cambiò lavoro, mettendosi al servizio di una società d’artisti, per imparare le tecniche della scultura e della pittura. Avevano tre figli ancora piccoli. Ora i figli sono cresciuti e due di loro hanno seguito la madre nella vocazione artistica: la figlia Suraya è designer e un altro figlio è regista cinematografico.

 

«Abbiamo cominciato la nostra attività – riprende – in un locale prestatoci da una società per la cura delle disabilità. Mio marito ha risistemato tutto con le sue mani d’oro. Abbiamo cominciato a far realizzare delle cartoline ai bambini. Ma quasi subito ci siamo accorti che dovevamo dar loro da mangiare, prima ancora di farli dipingere o studiare: arrivavano affamati, portando con sé il pranzo, pane e cipolle, null’altro. Così, coi soldi che ricavavo dalla vendita delle mie sculture, andavamo al mercato con mio marito e compravamo il cibo. E abbiamo anche cominciato ad “elemosinare” qualche soldo a destra e a manca. Siamo rimasti tre anni in quel locale, poi ci hanno sfrattati, senza ragione, e hanno preso tutto il frutto del nostro lavoro».

Per un anno sono rimasti fermi, ma non avevano pace. «Allora ho scritto al presidente Karimov in persona – riprende Guslara –, che ci ha proposto questa casa, un vecchio asilo dismesso. Era il 2001. Ma l’edificio era ridotto in condizioni pietose. A quel punto è stato mio marito a spingermi a fare il passo giusto: lui stesso si sarebbe assunto il compito di adattare e restaurare i locali. Così ha cominciato, ma non ha rimesso subito a nuovo i muri, come potrebbe sembrare logico; ha invece tolto l’asfalto dal cortile per piantarvi degli alberi, perché i bambini dovevano secondo lui trovare un ambiente bello e gradevole per le loro attività».

 

Poco alla volta Gulsara Radjapova e il marito hanno rimesso in sesto l’asilo e vi si sono pure trasferiti, tanto che oggi la loro casa è anche la casa dei bambini, che vengono qui dall’orfanatrofio e vi trascorrono l’intera giornata. «Ma ora abbiamo un cruccio ulteriore, perché il comune non ci paga più l’autobus per andare a prendere i bambini. Non ho ancora trovato la soluzione, ma ci riusciremo. Da 150 bambini e ragazzi che venivano, ora siamo dovuti scendere, malgrado i nostri desideri, a cinquanta».

I bambini crescono e hanno bisogno di soldi per continuare i loro studi. In questo momento, però, più che chiedere soldi, invitano i potenziali benefattori a venire a vedere i luoghi, più convincenti di ogni parola.

Lo posso testimoniare senza fatica. Certo, è una continua lotta, come mostra l’attuale impossibilità di ricevere fondi dall’estero, per difficoltà burocratiche. «Ma c’è sempre una soluzione per tutto, perché quello che facciamo è gratuito, non ha fine di lucro. Prima di tutto vogliamo mettere o rimettere in piedi questi bambini e queste bambine, far capire loro che hanno un valore e che possono dimostrarlo ovunque e con chiunque. Sviluppare le capacità artistiche – fanno di tutto, anche delle sfilate di moda, o la preparazioni di costumi di scena per il cinema – li porta ad avere fiducia in sé stessi. Quando lavorano qui dimenticano i loro handicap e giocano con gli altri bambini, quelli cosiddetti normali, senza alcuna fatica, mentre all’inizio hanno paura della “normalità”. Ad esempio un ragazzo, che sembrava un relitto umano, oggi, a 18 anni, sta organizzando la sua prima mostra d’arte! Così il prossimo nostro sogno è quello di trovare un luogo per esporre le opere di questi bambini e “promuovere” le loro capacità».

In effetti nel cortile di casa stanno erigendo una casetta a due livelli proprio a questo scopo, anche per riuscire a raggranellare qualche soldo. Il motto del centro non a caso è chiaro: «Abbiate fretta di fare del bene».

 

Arriviamo per forza di cose a parlare delle motivazioni profonde della loro azione: «Prego ogni giorno per i miei figli e per i miei bambini handicappati – mi confessa Gulsara Radjapova –. E perché i nemici nostri diventino nostri amici. Dio sa tutto, sa bene che non abbiamo interessi nascosti. Ogni tanto parlano male di noi, ma non mi preoccupo perché Dio sa tutto».

Una fede concreta, concretissima: «Se chiedo qualcosa a lui, lo ricevo. Quando i soldi finiscono e mio marito comincia a tremare, io lo rassicuro: Dio ci penserà. Come quella volta che non c’erano i soldi per comprare il cibo ai bambini… Hanno bussato alla porta, una persona ci portava giusto i soldi che erano necessari per quel giorno. Un’altra volta avevamo in cortile una grande anguria, che pensavamo quel giorno di distribuire ai ragazzi. Ma qualcuno l’ha rubata. Ero proprio sconfortata. Qualche minuto più tardi è passato un anziano signore che era andato al mercato a vendere un carretto di angurie. Ne aveva piazzate molte, ma dieci gli erano rimaste e voleva darle per i nostri ragazzi! Diamo uno e riceviamo dieci, è sempre così».

La figlia ha una sola parola, ma particolarmente efficace, che svela il segreto del successo: «Mamma e papà sono sempre stati concordi in quello che facevano. Ed erano concordi anche nei sentimenti più profondi. Quindi tutto quello che hanno fatto a noi fratelli e sorelle ci è andato sempre bene, non avevamo nessuna ragione per pensarla diversamente da loro».

 

Poche parole, concretezza!

Avashan Radjapova è marito di Gulsara. È uomo di poche parole, silenzioso e fattivo. Così racconta: «Ad un certo punto della mia vita ho capito che sarebbe stato molto più interessante mettere al servizio di questi bambini le energie della mia vita, piuttosto che spenderle in un lavoro sì gratificante, ma in fondo poco utile. E non volevo lasciare sola mia moglie, che era così generosa, così attenta ai bambini. Per cui ho deciso di lanciarmi in quest’avventura. Ora dobbiamo creare questa casa in cui anche altri artisti possano offrire i loro servigi per questi ragazzi e queste ragazze: i miei obiettivi sono sempre concreti. È inutile spendere tante belle parole, tanti bei propositi se poi non si fa nulla di concreto».

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons