Arte e politica da Caravaggio a Bernini
Salome ha uno degli sguardi più cattivi della storia dell’arte. Gli occhi appuntiti sono soddisfatti mostrando la testa di Giovanni Battista sul vassoio. Il giovane carnefice di lato è confuso, la vecchia – dipinta a tratti furiosi “impressionisti” – sconvolta e cupa. Caravaggio dipinge il male e il peccato come pochi altri. La tela è scura, ma il volto del morto spira pace, nonostante tutto.
Con questo capolavoro si apre la rassegna alle Scuderie del Quirinale, a Roma. Un’opera potente, del 1607, che basterebbe da sola a dire una rassegna e un genio. Si capisce il motivo per cui il Vicerè di Napoli, il Conte di Castrillo, l’abbia inviata con la sua collezione a Madrid, tra il 1657 e il 1659, dove poi è passata ai Reali nel 1794. Ora è giunta insieme alle altre opere nella mostra romana.
Certo il Palacio Reale madrileno possiede una collezione invidiabile di lavori, acquistati o ricevuti in dono per motivi politici, ed è una fortuna che essi siano visibili qui a Roma. Del resto, arte e politica sono spesso andati d’accordo: già dall’antichità gli scambi di cortesie diplomatiche consistevano pure nell’invio di opere d’arte fra i potenti.
Dal naturalismo caravaggesco, alla classicità di Guido Reni. Per la prima volta è esposta la tela della Conversione di san Paolo, ritrovata di recente, e giunta in Spagna sul 1665 come dono al re da parte di Niccolò Ludovisi, Vicerè di Aragona e Sardegna. L’opera di Guido ricorda certo le scene dipinte da Michelangelo, Parmigianino, Niccolò dell’Abate e Carracci: una lunga tradizione con il cavallo in primo piano. Ma qui il nitrito schiumante al cielo, dove le nubi sono rotte da uno squarcio luminoso, si cristallizza come in un fotogramma fermato, e così pure il santo in caduta libera dall’animale. Reni non racconta, sublima: il suo è il teatro della bellezza senza macchia.
Guercino invece racconta la storia biblica di Lot ubriacato dalle figlie in una caverna, soggetto molto frequentato in età barocca, anche per la carica sensuale. Il pittore non si tira indietro, lavorando per il cardinale Ludovisi, futuro papa Gregorio XV, i cui discendenti avrebbero poi donato il quadro al re di Spagna nel 1665. Guercino, grande affabulatore, narra modellando corpi e ombre con una morbidezza tutta sua, molto emiliana e padana.
L’Italia non solo manda dipinti in terra iberica, ma è la scuola dell’arte. Ed ecco Velàzquez, pittore di corte, compiere ben due viaggi nel nostro paese, incontrando artisti come Guercino, e comprando lavori per Filippo IV nel 1634. Di suo, produce una tela eccellente, La tunica di Giuseppe, dove mette a frutto l’amore per la pittura italiana. Grande armonia compositiva, giusta distribuzione degli ”affetti” cioè dei sentimenti, con espressioni sincere e non artificiali, gusto per il colore ricco e luminoso. Dipinto con “flemma”, secondo il suo solito, al rientro dall’Italia. Velàzquez non era uno che amava far le cose di corsa.
A volte però le cose non andavano per il verso giusto, anche quando si trattava di grandi star internazionali e superpagate, come Bernini. Fuse un Crocifisso bronzeo per Filppo IV e glielo inviò attraverso il Duca di Terranova tra il 1654 e il 1657. Avrebbe dovuto trovare posto nell’immensa reggia-convento dell’Escoriale – – da cui ora proviene – nella cappella funebre reale. Un luogo quanto mai prestigioso. Ma, non si sa come mai, il bronzo venne poco più tardi sposato in altra sede nel convento. Si tratta dell’unica sua statua rifiutata per motivi a noi ignoti dal committente. Misteri della politica ed anche dell’arte.
Ma suggeriamo di percorrere tutta la rassegna a scoprire altri lavori impressionanti, dalle tele neorealiste del Ribera alle dolcezze del Maratti, da quelle di Mattia Preti fino al notturno della Cattura di Cristo di Luca Giordano, pittore di fantasmi in una violenza nel buio. Sino ai carnosi Mazzi di fiori di Andrea Belvedere e ai deliqui mistici di Cristo e Maria di Francesco Solimena. Da non perdere.
Fino al 30/7 (catalogo Skira)