Arte in dialogo a Brera

La Pinacoteca milanese riserva sempre qualche interessante novità: alcune tele di artisti diversi possono essere apprezzate esposte insieme, nella medesima sala. Ed è il caso dello Sposalizio della Vergine di Perugino e Raffaello. Da non perdere, fino al 27 giugno
Milano

La Pinacoteca milanese è sempre ricca di novità. A parte i restauri in opera di lavori stupendi, visibili al pubblico, come il Cristo morto del Mantegna – grigi e rosa delicatissimi nella piccola tela –, e a parte la nuova sistemazione delle sale – quella con i Crivelli è una meraviglia da sé –, ora alcuni lavori di artisti diversi si ritrovano insieme per la prima volta a dialogare nella medesima sala.

 

È il caso dello Sposalizio della Vergine di Perugino e Raffaello. Il primo, proviene dal museo di Caen, in Francia, dove fu portato dalle requisizioni napoleoniche, il secondo da Città di Castello giunse a Milano e per fortuna si è fermato qui. Si è sempre scritto – a partire dal Vasari –, che la tavola di Raffaello è l’ultimo e massimo omaggio del pittore al suo maestro Perugino. Sarà. Certo, il Sanzio ha visto la tavola di Pietro. L’impostazione è identica: un gran tempio centrale, dietro un panorama vastissimo, in primo piano la scena del matrimonio tra Maria e Giuseppe, le due file di donne e uomini, separati.

 

La somiglianza è tutta qui. Perciò, nella sala dove campeggia anche la Pala di Montefeltro di Piero della Francesca – nume ispiratore dei due artisti – il dialogo fra le due opere si fa stretto e  continuo. Certo, la possibilità di vedere accostati due lavori di sensibilità così diverse, ma anche corrispondenti, è un'esperienza davvero unica, ed ognuno la può fare fino al 27 giugno.

 

Del Perugino colpisce subito la luce abbagliante dello spazio, il tempio poligonale solenne, come nell’affresco della Consegna delle chiavi nella Cappella Sistina, di cui continua il fare largo, grandioso. Se le figurine sulla scalinata del tempio appaiono minime e dalle pose ancheggianti, quelle del corteo in primo piano sono schierate come dei manichini perfetti, ma a dire il vero poco espressivi. Giuseppe e Maria hanno espressioni languide, raccolte e un po’ manierate, così che l’interesse del dipinto sta soprattutto nella luminosità così ampia, che si protende poi nel fondo davvero infinito, con quel senso di silenzi sovrumani che spesso Perugino sa esprimere nei suoi cieli incontaminati, nella purezza del colore che esalta pure l’eleganza delle figure.

 

La tavola di Raffaello, più piccola, risponde al maestro con l’aria velata dello spazio, la dolcezza del colore, la naturalezza delle espressioni e dei gesti e quel sentimento caldo che a 21 anni il pittore già possiede come qualcosa di specificatamente suo. Se Perugino descrive la scena ma è poi interessato allo spazio, Raffaello unifica entrambe le cose dando loro armonia, mediante la qualità della sua luce, che possiede qualcosa di morbido, una densità atmosferica che dal tempio circolare – invenzione squisita – corre poi nello slargo del fondo verso spazi interminati, leopardiani ante litteram.

 

Perugino è un grande narratore, Sanzio un poeta. Nella sala, la tela di Jean-Baptiste Wicar, che sostituisce dal 1825 il Perugino nella cattedrale di San Lorenzo a Perugia, non regge al confronto, ma dialoga silenziosamente con i due grandi. Ed è un attimo di riposo, necessario, nella normalità quotidiana di un’arte impegnata ma non eccelsa, dopo il colloquio dei due geni fra loro  e con noi. Tutto da scoprire.

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