Arte e follia, il caso Ligabue
Qual è il limite o se si vuole il contatto tra genio e pazzia? Difficile dirlo, basti pensare al caso fin troppo celebre di Caravaggio, una personalità sicuramente eccentrica. Certo che il dolore ha gran parte nella creazione artistica. Elio Germano – vincitore dell’Orso d’argento al recente Festival di Berlino come miglior attore – lo dimostra, calandosi del tutto, anima e corpo, nella figura di Antonio Ligabue nel film Volevo nascondermi di Giorgio Diritti. Un regista di film intensi, pochi ma ottimi, come Il vento fa il suo giro (2005) e L’uomo che verrà (2009).
Ligabue era brutto, quasi deforme, un’infanzia difficile, una vita da randagio nella Bassa padana, tre ricoveri al manicomio, una morte per ictus nel 1965. Ed un talento immaginifico urtante, originale: un universo di animali feroci in cui gridare la propria diversità, l’inascoltato diritto di amare. Diventa celebre, non ne approfitterà, rimarrà sempre un “diverso”.
Un personaggio incompreso, difficile da analizzare, che il regista segue non in tempo cronologico ma con flashback drammatici e dolorosi dall’infanzia di disadattato alla maturità, fino alle sequenze “cristologiche” di lui malato che non vuole morire, ma vivere, che vorrebbe sposarsi ma nessuna lo vuole. È l’avventura di un povero Cristo che sfoga la smania di creare e di farsi accettare attraverso un’arte crudele: un van Gogh padano che Diritti traccia attraverso i quadri, il corpo tormentato e lo sguardo allucinato di Ligabue-Germano.
Ne esce non solo un ritratto fisico ma psicologico e un invito a noi “normali” a non escludere i “diversi”. La bellezza del film sta anche nei paesaggi padani, nelle acque negli alberi e nei cieli che accompagnano il viaggio doloroso di Ligabue attraverso una vita urlata con amore disperato. Suscita in noi un sentimento di pietas quanto mai attuale, cadenzato dalle scene di un mondo rurale che non esiste più e che Diritti fa rivivere con nostalgia.