Arrivederci a due “grandi”: Silvana Pampanini e il musicista Pierre Boulez

Lei era la vamp degli anni Cinquanta-Sessanta, che fece perdere la testa ad attori e produttori. Lui, osannato da compositori e direttori, ha reinventato la musica classica. Entrambi, così importanti nei loro settori e così diversi, hanno rappresentato un aspetto differente, ma complementare, della stessa epoca
Silvana Pampanini

La vamp Silvana Pampanini e il musicista Pierre Boulez: entrambi sono stati dei grandi, ciascuno nel proprio campo. Diversissimi certo, ma non per questo meno indicativi di un’epoca.

 

Veniamo da noi, in Italia. Me la ricordo bene Silvana Pampanini, anziana, rugosa e secca, vestita in maniera sgargiante, super truccata e con enormi cappelli al romano Teatro dell’Opera. Icona di una bellezza che fu e che faceva sorridere qualcuno, eppure la  “signorina” – come amava essere chiamata – manteneva un suo fascino.

Certo, ora che è  morta a novant’anni, pochi ricordano la sua bellezza “italica”, da “maggiorata”. Era l’epoca della Loren e della Lollobrigida, gli anni Cinquanta e Sessanta delle bellezze “al bagno ”in costumi attillati e pose sensuali.

 

Silvana, nipote del celebre soprano Rosetta, studentessa di piano al Conservatorio di Santa Cecilia, non sfigurava, anzi la folla faceva il tifo per lei ai Concorsi di bellezza e di Miss Italia. Lei stava al gioco, assumeva pose da vamp e vamp lo era. Bellissima, poco pensante secondo quanto esigeva il pubblico di allora – gli italiani sognavano una notte d’amore con lei -, entrò nel cinema. Recitò con Totò che le chiese invano la mano (e scrisse forse per lei “Malafemmina”), rifiutò il produttore Moris Ergas che le fece terra bruciata intorno, inventò amori stranieri, ed esibì la sua bellezza nei film comici, nelle commedie, ma lavorò anche con registi come Germi e Comencini. Fu amata dai francesi che la chiamavano “Ninì Pampan” ed ebbe il suo tempo di gloria ove espose le sue forme aggressive che dicevano un’epoca.

Poi il tempo fece sfiorire la bellezza altera, ma l’animo seducente, la voglia di apparire e di interpretare un mondo, un modo di essere e di vivere, rimaneva in questa donna, buona di cuore, icona di una Italia ancora semplice ed ingenua.

 

Altra cosa, ovviamente, un personaggio come Pierre Boulez. Altra icona, quella della musica classica del ‘900. Boulez era nato nel 1925 a Montbrison, sulla Loira, ed è morto a Baden Baden l’altra notte. Considerato una sorta di Messia dagli artisti del  Novecento, compositori e direttori – anche lontanissimi dal suo modo di pensare e di comporre come Riccardo Muti o Daniel Baremboimha reinventato la musica. L’ha liberata, a suo dire, dal romanticismo, dall’emotività, dal sentimento, per produrre sonorità cristallizzate, analitiche, matematiche. Da un maestro come Leibowitz aveva appreso la lezione atonale di Schonberg, Berg, Webern; da Messiaen l’amore per i suoni “naturali”, il colore, l’odore del suono stesso. Boulez componeva brani basati scientificamente su lezioni intellettive, pensanti, geometriche: nel 1952 scriveva che il principio romantico era ormai morto, perciò egli si poteva esporre ai suoni “freddi”, esplorando i territori dell’acustica, dell’elettronica, dell’informatica, mai sazio di scoperte. Personalità come i nostri Luciano Berio o Giorgio Battistelli hanno imparato molto da lui.

 

Ma Boulez era grande anche come direttore, splendide le sue interpretazioni di Wagner (stupendo  il suo Parsifal) o di Mahler, così analitiche, rigorose, senza alcuna concessione all’emozione. Didatta prezioso, ha fondato l’Ircam nel 1970, l’unico istituto  al mondo dedicato allo sviluppo e alla produzione della nuova musica di cui è stato appassionato divulgatore.

Come uomo, timido, riservato, di poche pensate parole – i suoi giudizi sapevano essere precisi come una lima -, Boulez era una sorta di asceta della musica. In un tempo di gigantismi direttoriali e di autori narcisisti, egli ha amato la sobrietà, la ricerca inesausta di nuovi suoni, la voglia di eternità, di sfondare il cielo, di cui il Novecento – e noi appena nati nel XXI secolo -, nonostante tutto, non riusciamo a farne a meno.

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