Aron Demetz: il nuovo sull’antico
Un viavai di statue. L’ho costatato per anni nei miei periodici ritorni in quel Museo in perenne riallestimento che è l’Archeologico di Napoli (Mann). Statue anche di tutto rispetto, quanto a proporzioni: come il colossale busto di Giove proveniente da Cuma e i due Marco Nonio Balbo a cavallo da Ercolano, emigrati rispettivamente dallo scalone e dall’atrio in uno dei cortili. Ormai ci ho fatto l’occhio: quando le vedo posizionate su basi di legno, capisco che la loro sede è provvisoria e alla prossima visita dovrò cercarle altrove. Stavolta però mi attende una sorpresa: mescolati al popolo di marmo costituito dalla prestigiosa collezione Farnese e dagli esemplari restituiti dai vari siti campani sono presenti “infiltrati” d’altro materiale: le statue lignee di Aron Demetz. Una quarantina, espressamente realizzate per la mostra Autarchia e ispirate al ritmo posturale delle opere scultoree presenti nel Museo.
Aron Demetz nasce nel 1972 a Vipiteno (Sterzing in tedesco), comune della provincia autonoma di Bolzano. Studi presso l’Istituto d’Arte di Selva di Val Gardena e presso l’Accademia di Belle Arti di Norimberga (Germania). Dal 1999 vive e lavora a Selva di Val Gardena e dal 2010 insegna scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara. Figlio di una terra famosa per un artigianato artistico di soggetto soprattutto devozionale, è considerato uno dei più importanti scultori italiani del momento. Protagonista apprezzato a livello internazionale di una vera e propria evoluzione della scultura lignea, le sue opere rappresentano uomini, donne e adolescenti a grandezza naturale. Posizione stante, bellezza dei corpi e armonia delle proporzioni: immediato è il richiamo alla statuaria greca del periodo arcaico e classico. Ma l’energia, lo spirito che le anima appartiene al nostro tempo.
Per uno come Demetz, che fa parte della Scuola della Val Gardena, materia privilegiata non poteva essere che il legno, anche se da sperimentatore quale è non disdegna il gesso, il marmo e il metallo. Legno di tiglio o di acero, levigato fino ad apparire morbido, o appena sbozzato a colpi di mazzuolo e di sgorbia, questo materiale vivo sembra conservare l’aroma dalle foreste dalle quali proviene. Apposta alcune opere sono parzialmente ricoperte da colate di resina, la secrezione prodotta da molte piante, in particolare le conifere, per cicatrizzare le ferite inferte ai tronchi dalle scuri o dai fulmini. Non si tratta solo di ricreare un “effetto natura”: per Demetz, «restituire la resina al tronco è come dare all’albero la possibilità di rifarsi sulle ferite che gli ho inflitto scolpendolo».
Un’altra serie di queste sculture lignee rappresenta corpi sempre in piedi ma carbonizzati, che sembrano ancora custodire in sé qualche brace latente. Testimonianze funeree d’una sorte crudele? No: per Demetz il fuoco non ha una connotazione distruttiva, ma rigenerante, come gli incendi spontanei che favoriscono il rimboschimento delle foreste. «Ciò che m’interessa – precisa l’artista – non è tanto l’atto del bruciare ma la fragilità del legno bruciato. La sua superficie mi regala il passaggio tra quello che c’era prima e quello che c’è adesso, stimolando l’immaginazione dello spettatore».
Non a caso ogni sua opera, pur mantenendo la staticità della figura eretta, il che riduce al minimo l’aspetto narrativo, sembra alludere a ciò che il tempo opera sull’uomo, ad una metamorfosi. Come certe altre sculture caratterizzate da escrescenze come funghi che contaminano, rivestendole, parti del corpo: sculture per così dire “pelose”, ottenute con un tipo di fresatura computerizzata, poetiche e affascinanti.
Demetz insomma indaga la figura umana attraverso tutte le possibilità fornite da quel legno col quale ha familiarità fin dalla sua infanzia. E riporta a livello d’arte questo tipo di scultura che già in epoche passate ha prodotto capolavori (si pensi alle celebri sculture senesi).
Collocate accanto alle loro sorelle di epoca classica, di cui imitano la postura, queste opere hanno tuttavia un elemento ad esse estraneo, tipico della modernità: l’inquietudine, espressa dai volti enigmatici, dagli sguardi dolenti e dal loro essere comunque sole e autosufficienti (di qui forse il titolo dell’esposizione: Autarchia). Esse sembrano voler distrarre l’osservatore dalla pura contemplazione dei capolavori classici cui sono accomunate per risucchiarlo nella propria interiorità e farlo riflettere sul mistero creativo che sta alla base di ogni opera uscita dalle mani dell’uomo.
Aron Demetz, Autarchia – Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Mann). Prorogata fino al 30 agosto.