Aron Demetz e il richiamo della materia

Con questo rinomato artista della Val Gardena la tradizione millenaria della scultura in legno della sua terra si è aperta a nuovi percorsi.
Fonte: Flickr

Mi sorprende al primo piano del Marca, il Museo delle Arti di Catanzaro, un’enorme testa maschile. Il pathos del volto profondamente inciso, perfino il colore rossastro e le venature del materiale, il legno d’acero, concorrono a dire le traversie di una vita. Sempre bellissime e inquietanti, le sculture di Aron Demetz! Già mi avevano affascinato nel 2018 al Mann di Napoli, dove esse dialogavano con le celebri statue di epoca classica di quel Museo. Ora ne rivedo alcune, riproposte nel capoluogo calabro insieme ad altre nuove nella mostra dal titolo Autarchia, in corso fino al 31 marzo.

Autarchia, ovvero “autosufficienza”. Che però non significa, nel caso di Demetz, “accontentarsi”, bensì – come scrive il curatore dell’esposizione Alessandro Romanini – «come forza di conquista veicolata da una rigida autodisciplina, sostenuta dall’inesausta ricerca ed esercizio e alimentata da un continuo confronto con i capisaldi storici dell’arte plastica».

Fonte: Wikipedia

Classe 1972, ladino della Val Gardena, e quindi figlio di una terra famosa per un artigianato artistico di soggetto soprattutto devozionale, Aron Demetz è considerato uno dei più importanti scultori italiani del momento. Protagonista apprezzato a livello internazionale di una vera e propria evoluzione della scultura lignea, le sue opere rappresentano uomini, donne e adolescenti a grandezza naturale. Posizione stante, bellezza dei corpi e armonia delle proporzioni: immediato è il richiamo alla statuaria greca del periodo arcaico e classico, se non anche a quella egizia. Ma l’energia, lo spirito che le anima appartiene al nostro tempo.

Per Demetz, formatosi alla Scuola della Val Gardena, materia privilegiata non poteva essere che il legno (anche se, nella sua ricerca espressiva, non disdegna il marmo, il metallo, il gesso e il vetro): legno di tiglio o di acero, levigato fino ad apparire morbido, o appena sbozzato a colpi di mazzuolo e di sgorbia, questo materiale vivo sembra conservare l’aroma dalle foreste dalle quali proviene. Apposta alcune opere sono parzialmente ricoperte da colate di resina, la secrezione prodotta in particolare dalle conifere per cicatrizzare le ferite inferte ai tronchi dalle scuri o dai fulmini. Non si tratta solo di ricreare un “effetto natura”: per Demetz, «restituire la resina al tronco è come dare all’albero la possibilità di rifarsi sulle ferite che gli ho inflitto scolpendolo».

Irriconoscibili, come destinate a disfarsi, mi interrogano alcune figure pietosamente impreziosite da inserti metallici dorati, quasi a volerne fermare lo sfacelo. E poi certe teste umane racchiuse tra due fette d’albero o emergenti da una di esse: forse a simboleggiare un’altra vita che germina dalla morte della pianta?

La figura in metallo di un adolescente in ginocchio potrebbe significare tanto la resa di uno sconfitto quanto l’anelito di un’anima in preghiera. E preghiera sembra pure quella di una ragazza che con gli occhi rivolti al cielo stringe, enigmatica, al petto un enorme rospo.

Una serie di sculture lignee rappresentano corpi in piedi ma carbonizzati, quasi un eco di certi reperti vesuviani a differenza dei quali, però, queste sembrano ancora custodire in sé qualche brace latente. Testimonianze funeree d’una sorte crudele? No: per Demetz il fuoco non ha una connotazione distruttiva, ma rigenerante, come gli incendi spontanei che favoriscono il rimboschimento delle foreste. «Ciò che m’interessa – precisa l’artista – non è tanto l’atto del bruciare ma la fragilità del legno bruciato. La sua superficie mi regala il passaggio tra quello che c’era prima e quello che c’è adesso, stimolando l’immaginazione dello spettatore».

Fonte: Flickr

In effetti ogni opera, pur nella staticità della figura eretta, il che riduce al minimo l’aspetto narrativo, sembra alludere a ciò che il tempo opera sull’uomo: al limite, una metamorfosi di quelle cantate da Ovidio. È il caso di una scultura maschile metallica con le estremità inferiori rappresentate come tronchi d’albero; di una femminile, “aggredita” da funghi come da una malattia; e di altre ancora la cui bellezza corporea appare, in varie parti, corrosa da sfilacciature o sezionata da elegantissimi solchi a onde, ottenuti con un tipo di fresatura computerizzata.

Demetz insomma indaga la figura umana attraverso tutte le possibilità fornite da quel legno col quale ha familiarità fin dalla sua infanzia. E riporta a livello d’arte questo tipo di scultura che già in passato ha prodotto capolavori (il pensiero va ad alcune celebri sculture senesi). Non a caso, una figura femminile delicatamente policroma – i lunghi capelli sciolti e lo sguardo perso lontano – potrebbe benissimo rappresentare una Maddalena penitente.

Rispetto però alle loro sorelle di altra epoca, queste presenti nel Marca hanno un elemento ad esse estraneo, tipico della modernità, anche quando rappresentano una famigliola preistorica colta in postura carponi, ed è l’inquietudine espressa dai volti enigmatici, dagli sguardi dolenti e dal loro essere comunque sole e autosufficienti: di qui forse anche il titolo dell’esposizione, Autarchia.

Esse sembrano voler distrarre l’osservatore dalla pura contemplazione della bellezza classica, di cui pure portano il segno, per risucchiarlo nella propria interiorità e farlo riflettere su una bellezza “altra”, da saper scorgere perfino in ciò che le parrebbe distante o anche opposto. Riflettere, in definitiva, sul mistero creativo che sta alla base di ogni opera uscita dalle mani dell’uomo.

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