Armi leggere e guerre pesanti

Sul tema del disarmo, giovani a confronto nella cittadella di Loppiano. Avviata la campagna a sostegno del trattato di non proliferazione.
Armi leggere e guerre pesanti

Perché un giovane di 17 anni decide di imbracciare un mitra, tornare nella sua vecchia scuola e fare una strage senza dire una parola, come al liceo di Winnenden in Germania nel marzo scorso?

La questione giovani ed armi rimbalza ormai da una decina d’anni a tutte le latitudini del pianeta: dall’Asia alle Americhe, passando per gli Stati Uniti che, con le stragi della Columbine High School e del Virginia Polythecnic Institute, si sono aggiudicati il triste primato di “Paese degli school shooters”, gli assassini scolastici.

Un problema tanto difficile da risolvere quanto da ignorare, spiegano i Giovani per un mondo unito, che a Loppiano hanno promosso il forum “Disarmiamoci”, all’interno del 39° Meeting dei giovani, svolto si il 1° maggio scorso. «Abbiamo voluto tastare il polso della nostra generazione e saperne di più sullo spaventoso giro delle armi, le cosiddette armi leggere nelle mani dei ragazzi e siamo arrivati a parlare di export internazionale, di “banche armate”, di guerra e armi nucleari. Allora la nostra domanda è diventata: noi cosa facciamo per la pace?».

Lo scenario mondiale si presenta a dir poco armato fino ai denti: dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi sono 27 milioni i morti provocati dalle guerre, di cui il 90 per cento sono civili. Dal 1990 è l’Africa la mecca del commercio d’armi, negli ultimi dieci anni la spesa militare è aumentata complessivamente del 45 per cento.

«E questa è solo la punta dell’iceberg, quello che siamo riusciti a sapere dai media – incalza Martin, dell’Argentina –. Ciò che possiamo e vogliamo fare noi è iniziare a disarmare la nostra vita quotidiana, contro una certa cultura diffusa che giustifica la competizione violenta, l’aggressività, la sopraffazione dell’altro, spacciando tutto questo per un dato naturale che fa parte di noi stessi».

Questi giovani non ci stanno a cadere nella trappola di un realismo senza speranza; non si accontentano neppure di un generico “no” alla guerra e al terrorismo sbandierato da tanti che cominciano però a fare dei distinguo quando i rapporti personali si complicano a scuola, al lavoro o allo stadio.

 

«Spesso è la paura il motore della violenza – commenta Maria Teresa, di Bergamo –. Chiunque non conosciamo e suona al campanello di casa ci fa paura. Ora ci si ammazza anche per un parcheggio. Che relazione c’è tra la paura e la violenza?».

Pasquale Ferrara, esperto di relazioni internazionali, risponde alle domande dei giovani: «Spesso la condizione di timore scatena atti del tutto irrazionali che non hanno relazione diretta con quanto in realtà è accaduto. Abbiamo paura quando ci sentiamo soli, quando attorno a noi si disfa il senso dell’appartenenza ad una comunità. Se ci sentiamo membri di una comunità, aumenta la sicurezza di tutti». Spiega che «è una sfida profonda, che chiama in causa il modello di società che stiamo costruendo. Quando abbiamo paura, dobbiamo interrogarci se la direzione verso la quale va la nostra vita o la nostra società è quella giusta».

E sul ruolo dei comuni cittadini, di quelli che non entreranno mai nella stanza dei bottoni, Ferrara specifica che non è sempre vero che l’impegno individuale o di piccoli gruppi non produca risultati. Basti pensare al movimento che ha portato alla Convenzione di Ottawa sulla proibizione delle mine anti-uomo: ad innescare il processo è stata una piccola organizzazione non governativa canadese che è andata a tutti i possibili forum e ha bussato a tutte le porte in sostegno del rilancio della campagna contro le mine anti-uomo. Risultato: nel 1997, 122 Stati hanno firmato il trattato in cui si impegnano a impedire la produzione e l’uso delle mine, a distruggerle, a bonificare le aree interessate e a fornire assistenza tecnica in quest’operazione.

Un altro esempio è quello della grande questione dei cambiamenti climatici: se ieri negli ambienti internazionali veniva accolta con sorrisetti di compiacenza, oggi, grazie al vasto movimento ambientalista, è un tema all’ordine del giorno in tutti i vertici ai massimi livelli.

La posta in gioco è alta, come pure la pressione culturale su questi temi. Si sente la necessità di attualizzare la scelta della non violenza trovando strade nuove. «Non dimentichiamo che oggi abbiamo a disposizione moltissimi strumenti per fare la nostra parte – aggiungono i giovani –. Perché, ad esempio, non utilizzare Internet per denunciare situazioni di oppressione, ingiustizia, violenza e per partecipare in prima persona alla costruzione della pace?».

 

 «Siate il cambiamento che vorreste vedere nel mondo», diceva il Mahatma Gandhi. Parte da questa assunzione di responsabilità la campagna globale 2010 a cui partecipano anche i Giovani per un mondo unito.

Nel maggio 2010, a New York, si terrà l’ottava Conferenza internazionale sul Trattato di non proliferazione (Tnp), il principale strumento diplomatico di controllo delle armi nucleari, entrato in vigore nel 1970, la cui validità è stata estesa a tempo indeterminato nel 1995. Ma già nel 2005, la difficoltà di assumere posizioni comuni ha portato all’insorgere di alcune divisioni su una delle clausole più importanti del testo: quella che impegna gli Stati cosiddetti nucleari a cessare la corsa agli armamenti e a raggiungere accordi per la riduzione dei loro arsenali.

Tutto ciò sta passando in sordina. Che fare? Desi, di Manila, lancia la sfida: una campagna globale di sensibilizzazione e sostegno alla Conferenza di New York, con una massiccia raccolta di firme. Obiettivo: 100 milioni, promossa dall’International Youth Committee, composto da giovani delle principali tradizioni religiose del mondo che fa parte della Conferenza mondiale delle religioni per la pace, a cui anche i Giovani per un mondo unito hanno deciso di aderire.

Capire, progettare, fare, ma soprattutto vivere la pace nel quotidiano. È questo il messaggio che fa da apripista dell’azione di questi ragazzi: «Ciascuno di noi può diventare il punto di raccolta di molte firme – spiegano – e potremo coinvolgere tanti nella prima e più importante operazione di disarmo di massa: quella che riguarda il nostro cuore. Solo così siamo convinti che il disarmo tornerà al più presto a far parte anche dell’agenda politica dei nostri governi».
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