Armeni: fu un genocidio? La scelta di Biden

Il “genocidio armeno” dopo più di un secolo è ancora oggi al centro di dibattiti e prese di posizione. Una trentina di stati l’hanno ufficialmente riconosciuto, compreso il Vaticano. Improvvisamente anche Biden ha preso posizione riconoscendo che nel 1915-1923 gli armeni furono oggetto di un piano di sterminio. Gli Usa non si erano mai pronunciati nel merito. Perché adesso?

A Erevan, capitale dell’Armenia, la sera del 24 aprile scorso, come ogni anno, migliaia di persone con le fiaccole accese si sono radunate di fronte al memoriale del Meds Yeghern (grande male) che ricorda le vittime armene del periodo compreso fra il 1915 e il 1923, nei territori dell’allora Impero Ottomano (quest’anno erano almeno 10mila, nonostante il Covid). La data del 24 aprile fa riferimento al primo episodio di quello che negli anni 40 verrà chiamato “genocidio armeno”, termine ancora oggi rifiutato dallo stato turco.

Per comprendere cosa avvenne in quegli anni, secondo gli armeni e per la maggioranza degli storiografi, la data del 24 aprile 1915 è emblematica. A partire da quella notte e per un mese, soprattutto a Istanbul, più di mille intellettuali armeni (studiosi, giornalisti, poeti, deputati, ecc.) vennero arrestati e deportati verso l’interno dell’Anatolia, ma nessuno di loro giunse vivo a destinazione, se era prevista una destinazione. Fu il primo episodio di una serie di “trasferimenti” decretati dal governo turco (all’epoca controllato dai “Giovani Turchi” del comitato Unione e Progresso), che riguardò gli armeni di tutto il Paese.

Gli storici stimano che tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni morirono non solo giustiziati senza alcun processo, ma soprattutto per fame, malattia e sfinimento. Una parte dei cadaveri venne sepolta in fosse comuni, molti furono abbandonati dove erano caduti o dove erano stati uccisi. Uomini, donne e bambini. Chi riuscì a salvarsi emigrò, soprattutto in Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Usa e Russia. I discendenti della diaspora armena sono oggi presenti in tutto il mondo, e sono almeno 8 milioni. Oltre ai circa 3 milioni che vivono nella Repubblica di Armenia costituitasi nel 1991 sul crollo della precedente Repubblica socialista sovietica di Armenia istituita nel 1936, e ai poco più di 70 mila che vivono ancora in Turchia, nei territori del nordest che furono la culla dell’antica civiltà armena.

Da un punto di vista giuridico, gli archivi ottomani documentano che le deportazioni degli armeni iniziarono legalmente già nel marzo 1915 e che il 13 settembre dello stesso anno il parlamento ottomano approvò una “Legge temporanea di espropriazione e confisca”, che autorizzava lo stato a disporre di tutte le proprietà “abbandonate” dagli armeni, compresi terreni, bestiame e case.

Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati. (da Wikipedia)

Lo stato turco, anche la repubblica sorta dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano (1922), non ha mai riconosciuto le deportazioni degli armeni, che pure ci furono, come scusa per il loro sterminio. E quando più tardi si cominciò sempre più a parlare di genocidio armeno, l’uso del termine “genocidio” in questo contesto venne considerato reato penale perseguibile. E lo sanno bene diversi intellettuali turchi che sono stati accusati di questo crimine contro lo stato: quello di riconoscere che c’è stato un “genocidio armeno”. E si sa che in quanto a prigioni la Turchia non scherza, con il secondo tasso di incarcerazione più elevato (dopo la Russia) tra i Paesi del Consiglio d’Europa (357 incarcerati ogni 100 mila abitanti).

Oggi il “genocidio armeno” è riconosciuto ufficialmente da una trentina di nazioni e dalla grande maggioranza degli storici. Per lo stato turco si trattò invece di massacri reciproci nel contesto della Prima Guerra Mondiale (anche perché alcuni soldati armeni inquadrati nell’esercito ottomano disertarono e passarono nelle file dei russi nella speranza di liberare la terra armena dal secolare dominio ottomano) e di vittime della grande carestia di quegli anni, che provocò molti morti da entrambe le parti in guerra.

Gli Usa, dove peraltro la comunità armena è particolarmente nutrita (2 milioni), non avevano finora preso posizione sul “genocidio armeno”, soprattutto per una questione di rapporti con la Turchia, importante membro della Nato. Ma il presidente Biden ha deciso di riconoscerlo ufficialmente il 23 aprile scorso, pur precisando che il gesto è inteso a “confermare la storia”, e “non a incolpare” la Turchia. Di fatto, però, il riconoscimento statunitense riapre in un certo senso un’annosa e non secondaria questione: se la legge turca del 13 settembre 1915, quella dell’esproprio degli armeni, fosse impugnata a livello internazionale a causa del riconoscimento del “genocidio”, la Turchia dovrebbe risarcire milioni di eredi.

L’impressione è che le motivazioni che hanno spinto Biden a questo passo non siano solamente quelle di affermare i diritti umani di un popolo perseguitato, come è nello stile della sua presidenza. È anche questo. Ma c’è pure, probabilmente, un ben preciso segnale nei confronti delle sfide della leadership turca alle posizioni politiche e strategiche statunitensi e atlantiche. Come suggerisce un recente focus dell’Ispi, è possibile che la strategia di Biden sia basata su un convincimento: «Che la Turchia, in questo momento, abbia bisogno degli Stati Uniti più di quanto gli Stati Uniti abbiano bisogno della Turchia». E aggiunge: «È quindi il momento giusto per rimettere in riga un alleato riottoso, bisognoso del sostegno occidentale anche per calmare il nervosismo dei mercati a motivo delle sempre più evidenti difficoltà della lira turca».

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