Paralimpiadi, Arjola Trimi: «Libera come il mio stile»

Vi proponiamo un'intervista del 2016 a cura della redazione di Teens alla nuotatrice italiana Arjola Trimi, in forze alla squadra azzurra alle paralimpiadi di Tokyo 2020. La giovane ha vinto l’oro nei 100 metri stile libero nella classe S3. Trimi è al suo secondo oro in queste Paralimpiadi, dopo quello di domenica nei 50 metri dorso, sempre classe S3. In allegato lo sfogliatore della rivista di riferimento.
Fonte: Pexel

Amante dello sport fin da piccola: karate, atletica leggere , basket, calcio… «L’unico sport che non esercitavo a livello agonistico era il nuoto», ci racconta. Quel suo hobby è adesso lo sport che l’ha vista vincere una lunga lista di trofei.

Arjola, qual è il titolo che ti ha dato più soddisfazione?
«Dietro ogni medaglia c’è una storia particolare. La medaglia di quest’anno delle Paralimpiadi (Rio 2016 ndr.) è stata molto sofferta per me perché non ero al top a livello fisico. Tra l’altro la mia gara era l’ultimo giorno, quindi non è stato semplice mantenere la concentrazione necessaria e riuscire a dosare le forze dopo 5 gare con 5 finali, cioè 10 gare totali, con un dispendio di energie enorme. Arrivare a tirar fuori quella gara è stato veramente importante. Però anche la medaglia d’oro che ho vinto l’anno scorso ai Mondiali di Glasgow, nel dorso, era assolutamente inaspettata. Tra l’altro era una gara che avevo iniziato a preparare da poco: pensavo di fare bene, ma non immaginavo addirittura di vincere».

Cosa fa di una sportiva un’atleta vincente?
«La testa. Ovviamente ci vuole la tecnica, la preparazione fisica, che sono essenziali, ma poi è la testa che ti permette di mettere
a frutto tutto quello che hai fatto durante l’anno. E quando ci sono avversari inaspettati, occorre non lasciarsi prendere dal panico, ma andare avanti e fare quello che hai imparato a fare per 4 anni, nel caso di un’Olimpiade. Un’atleta può avere una dote naturale, che è il talento, però deve saperlo coltivare e anche per questo ci vuole la testa».

A noi di Teens piace conoscere le storie delle persone che intervistiamo. Tu hai sempre amato lo sport e poi, a 12 anni, nella tua vita è subentrata la malattia. Ci puoi raccontare qualcosa di te?
«Stavo giocando a basket quando mi sono fatta male a una gamba. Alla fine è risultato che il mio non era un problema ortopedico, ma neurologico. Si trattava di una malattia rara subentrata a causa del trauma»

Non deve essere stato semplice, specie per la giovane età…
«Sì, ero all’inizio della mia adolescenza. Vivere la malattia mi ha quasi fatto saltare questa fase, mi sono ritrovata da bambina ad adulta. Comunque, chi mi era intorno, cercava in tutti i modi di farmi vivere una vita adolescenziale per quanto difficile fosse, basti pensare alla complessità di mantenere un’amicizia quando si è ricoverati. Ed io ho passato i primi tre anni della malattia quasi sempre in
ospedale. Però mi reputo abbastanza fortunata, perché sono riuscita a conservare le amicizie che avevo»

E cosa hai fatto per superare questo periodo?
«Diciamo che sono riuscita a trovare un equilibrio, ma solo dopo una svolta. Nei tre anni in ospedale non riuscivo più a orientarmi, i medici mi dicevano di tutto e di più, allora ho deciso di prendermi un “anno sabbatico” dagli ospedali, frequentandoli lo stretto indispensabile.
Un importante cambiamento è stato decidere di andare alle visite da sola, affinché i medici si rivolgessero a me invece che al mio accompagnatore. Una volta appreso che la malattia non sarebbe regredita, ho dovuto anche prenderne coscienza. Non dico accettarlo, farlo è quasi impossibile. Se qualcuno ci è riuscito, vorrei sapere con quale tecnica, anche perché è qualcosa che evolve in continuazione. Ad un certo punto ho capito che era il momento di ricominciare, così ho ripreso a fare sport, il primo è stato basket in carrozzina. La presa di coscienza è stata un passo in avanti»

E il rapporto con la tua famiglia?
«Io e mia sorella eravamo davvero legatissime. Durante i mesi in ospedale lei veniva direttamente da scuola a trovarmi. Capitava che a volte si mettesse nel letto con me e che poi ci trovassero lì, insieme, addormentate. E anche i miei genitori c’erano sempre. E quanti sacrifici hanno fatto per me! Oltre a seguirmi in ospedale dovevano anche mantenere il loro lavoro e allo stesso tempo erano sempre presenti. La mia famiglia è qualcosa di impagabile».

C’è un diverso approccio alla vita e allo sport fra atleti cosiddetti normodotati e atleti paralimpici? Emergeva ad esempio nel modo di reagire a una sconfitta o a una vittoria…
«Lo credo anch’io. Noi non ci teniamo ad emergere. Per esempio io sono abbastanza restia a parlare della mia malattia. Non voglio che essa faccia la storia come spesso avviene quando i media parlano di atleti paralimpici. Un giornalista sportivo prima di tutto dovrebbe parlare delle mie prestazioni e dopo, eccezionalmente, della mia salute. Tante volte purtroppo è l’esatto opposto e i nostri risultati sono in secondo piano. I meriti di uno sportivo diventano: “Che bravo, nonostante la sua malattia riesce ad avere questi risultati”. Non lo
tollero: avrò anche una disabilità, ma sono un’atleta a tutti gli effetti! Sicuramente io ho una difficoltà in più, ma non voglio che le persone si facciano prendere dalla compassione dimenticando che noi atleti paralimpici lavoriamo esattamente quanto quelli normodotati. Io non ho problemi a parlare della mia storia. Sono un’impiegata che lavora in banca e sono anche un’atleta. Sono una persona con
questa disabilità, ma non sono la mia disabilità».

Quale messaggio vorresti dare a tutti i ragazzi che leggeranno quest’intervista? Mi ha colpitouna frase che hai detto in un’occasione: «L’unica cosa che puoi fare quando sei davanti a una difficoltà è pensare non a quello che hai perso, ma a quello che ti è rimasto e cosa puoi fare
con quello».
«È una frase che faccio mia in qualunque momento. Guardare la difficoltà e stare a commiserarsi non è utile. Direi piuttosto di porsi la domanda: “Cosa posso fare? Cosa posso mettere di mio per superarlo?”. Di fronte a un problema o lo affronti o ti lasci vincere. Conviene piuttosto cercare di capire quali sono le tue armi, utilizzarle al meglio possibile e andare avanti. È una cosa che io faccio ogni giorno ed è una frase che può essere applicata a tutte le fasi della vita».

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