Argentina: segnali di futuro

A Tucuman la situazione resta grave per il milione e 300 mila abitanti. Quasi la metà vive in stato di povertà e un terzo in penose condizioni di indigenza. I ragazzi sotto i 18 anni se la passano ancora peggio: l’80 per cento è povero e il 50 per cento (250 mila su 535 mila) patisce la fame. La città e la provincia registrano uno dei più alti tassi di mortalità infantile dell’intera Argentina. Il sistema produttivo locale è in grande difficoltà e metà dei lavoratori sono occupati in attività sommerse. La crisi a Tucuman, vera e propria capitale del nord, non è arrivata con il tracollo del paese di due anni fa. Nacque negli anni Settanta, quando il governo chiuse gli stabilimenti di lavorazione della canna da zucchero senza varare progetti sostitutivi e senza approntare misure assistenziali. La vicenda di Tucuman ha avuto grande risalto perché è stata ripresa dalla stampa internazionale. Ma resta il quesito: è un caso emblematico dell’Argentina di oggi o va circoscritto ad una situazione limite? “È un caso limite emblematico – puntualizza José Maria Poirier, appena rientrato da un viaggio in quella regione -, perché si ripete in tanti altri posti del paese, a Chaco, come a Corrientes e Formosa”. Poirier è il direttore del mensile cattolico Criterio, autorevole punto d’osservazione del paese da oltre 75 anni. “In Argentina – prosegue – chi ha un lavoro, ha paura di perderlo. Chi non ce l’ha, teme di non trovarlo. Chi è pensionato non sa se riscuoterà la pensione. Tante persone svolgono più lavori. Resta perciò diffuso un senso d’insicurezza (che talvolta sfocia nell’angoscia) dovuto ad uno stato che non riesce a svolgere il suo ruolo”. Attorno alle grandi città la povertà resta a livelli preoccupanti, segnalata dal persistere del fenomeno di famiglie intere che cercano di sopravvivere raccogliendo carta, cartone e vetro. Due anni fa, nella notte del 19 dicembre, le manifestazioni popolari al ritmo di colpi sulle innocue casseruole delle casalinghe avviarono una protesta spontanea, imprevista e pacifica contro l’inefficienza e la corruzione del governo. Purtroppo, nei giorni successivi fu sparso sangue e si dovettero piangere una trentina di morti. Il presidente Fernando De la Rua fu costretto alle dimissioni, e stessa sorte toccò all’inconsistente successore, Rodriguez Saa. Da lontano veniva, comunque, il malessere. “I dieci anni di governo del presidente Carlos Menem – spiega Alberto Barlocci, direttore di Ciudad Nueva -, hanno avuto il merito di sconfiggere agli inizi degli anni Novanta un’iperinflazione del 3.000- 4.000 per cento all’anno e tentare di rimettere in sesto l’economia con una serie di riforme strutturali. Tuttavia, è stato dato avvio a un periodo infausto, che ha contribuito a smantellare l’industria nazionale in nome del liberismo economico. Il debito estero è raddoppiato, sono stati privatizzati i servizi, spesso con accordi poco trasparenti. Il paese perse competitività, lievitarono la spesa pubblica, i prezzi e le tariffe, e si creò nella gente l’illusione di appartenere ormai al primo mondo”. Finalmente, adesso stanno emergendo segnali incoraggianti “C’è un positivo atteggiamento di realismo – chiarisce Poirier -. Molta più gente è disposta a capire la vera realtà della situazione nazionale, che non è così tragica come qualche volta si pensa, né così agevole come talora abbiamo voluto credere. Qualche merito va anche al nuovo presidente”. Nestor Kirchner è stato eletto in maggio dopo una campagna elettorale muscolare tra Carlos Menem ed Eduardo Duhalde, presidente uscente, che ha poi appoggiato questo poco conosciuto candidato della Patagonia. “È un uomo che ha svegliato una certa speranza – afferma Poirier -, in un paese dagli umori variabili. È un tipo pragmatico, che invita a vivere con quello che si ha, valorizzando quello che si è, senza più credersi il primo paese del mondo, certi però di non essere una nazione sottosviluppata senza alcuna possibilità. Sembra sincero nel voler fare pulizia delle mafie della politica e delle forze dell’ordine”. Che questo periodo sia vissuto all’insegna della speranza, lo rileva anche Cristina Calvo, economista e coordinatrice del Tavolo del dialogo, formidabile esperienza culturale e metodologica di collaborazione tra le componenti vive del paese, nata due anni fa per far fronte alla duplice necessità di sedare il conflitto sociale e di porsi quale interlocutore di uno stato senza più credibilità. Composto da esponenti delle maggiori religioni, dalle principali organizzazioni non governative, dai sindacati dei lavoratori, da organizzazioni imprenditoriali, il Tavolo, forte del consenso popolare, sta elaborando proposte – sulla base del criterio di privilegiare il bene comune invece che gli interessi settoriali – per poi offrirle al governo. È, ad esempio, frutto anche del lavoro del Tavolo il decreto di riforma politica sulla trasparenza che il presidente Kirchner sta per presentare. “Una cosa inedita in Argentina”, “È l’inizio del risanamento”, sono i commenti. Gente fiduciosa, insomma, nonostante tutto. “Sì – assicura l’economista Calvo -. Sa bene che la vecchia politica, clientelare e corrotta, ha ancora tanto potere in parlamento e al governo. Sa che il problema del debito non riguarda solo il Fondo monetario internazionale ma anche i creditori privati. Sa che senza la fiducia da parte dell’estero non torneranno gli indispensabili investimenti. Sa tutto questo”. Dove trova, allora, motivazioni? “Sta vedendo un inizio di ristrutturazione delle istituzioni democratiche, c’è un maggiore impegno, anche nelle organizzazioni sociali, a costruire una democrazia ampliata. Le persone stanno recuperando fiducia, voglia di lavorare, di partecipare”. Non è poco. “Questo è molto importante per noi, perché, come argentini, siamo individualisti. Cercare una soluzione insieme, senza aspettare tutto dal governo, o limitandosi a cercare i colpevoli, segna l’inizio di un cambiamento culturale profondo nel paese”. Conviene Poirier: “I paesi nati da una forte immigrazione vivono difficili processi d’integrazione. Quando riescono, come in Canada e, in parte, in Usa, ciascuno si sente parte del tutto. Quando una crisi investe queste società meno solide, uno incomincia a pensare che non vi appartiene. Da qui, la nostra enorme incapacità di lavorare in modo sistematico, comunitario, istituzionale”. Con la crisi, la classe media è quasi scomparsa e le disuguaglianze si sono accentuate, cosicché il 20 per cento della popolazione beneficia dell’80 per cento della ricchezza. Degli oltre 36 milioni di argentini, 15 milioni costituiscono la popolazione attiva, ma solo 11 milioni lavorano, pur con mille precarietà e con una media di 200 dollari al mese. Quattro milioni sono senza lavoro, con prospettive molto incerte e un disagio che può tornare ad esplodere. Il 60 per cento dell’economia è attualmente sommerso. Il Tavolo del dialogo e il governo stanno approntando proposte e leggi per far emergere le iniziative produttive, consolidarle e renderle competitive. “C’è un programma di economia sociale e di sviluppo locale – illustra Cristina Calvo – che sta coinvolgendo tante componenti, dai disoccupati agli imprenditori. Puntiamo molto su questo”. E ne spiega il motivo: “Costituisce un germe nuovo di umanizzazione della nostra economia. È un segno positivo del rapporto che si va istaurando in Argentina tra economia, società civile e politica. Al riguardo, gli intellettuali e le università stanno offrendo un apporto prezioso, attivo e propositivo per uscire dalla crisi”. Manca ancora – concordano i nostri interlocutori – una “visione strategica del paese” e “uno sguardo che superi l’emergenza del presente”. Ma è pur vero che solo un anno fa il Natale trovò una popolazione molto provata.

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