Argentina, il futuro intorno ad un tavolo
L’Argentina non esiste più. O, almeno, così sembra sfogliando la stampa italiana o seguendo le frequenti edizioni dei notiziari. Non se ne parla granché, eppure sta vivendo una delicatissima transizione. Non fa più notizia, una volta terminate le manifestazioni di piazza, tocco di colore per i tg. L’approccio del ricco emisfero nord (e dei relativi mezzi di comunicazione) nei confronti del paese sudamericano resta invariato: gli argentini hanno voluto vivere al di sopra delle loro possibilità, e adesso, che sono nei guai, provvedano a rimediare. Senza compiere alcuna distinzione tra governanti e popolazione. Dall’alto, Buenos Aires appare sempre la stessa: affascinante e moderna. Non sembra proprio che stia vivendo, in quest’ultimo scorcio d’estate, una crisi tanto profonda. Gli aerei atterranno zeppi di passeggeri. Non c’è paura di volare. Il cambio favorevole, dopo il crollo del peso, la moneta locale, ha dissuaso anche i più timorosi. L’afflusso dei turisti stranieri è rilevante, e tutto risulta vantaggioso per chi dispone di una moneta con una qualche solidità. Anche dal vicino Uruguay, molti attraversano il vasto estuario del Rio de la Plata per fare acquisti in terra argentina. Il centro di Buenos Aires è ancora vivo e signorile, ma appena ci si allontana balzano in evidenza degrado e povertà. È, questo, il racconto comune di chi è appena tornato dall’Argentina, dopo essere stato là altre volte, in tempi migliori. La vita, negli ultimi mesi, ha preso un altro corso e non risparmia nessuno. Raul è sposato con Iris, ha quattro figli tra gli 8 e i 15 anni. Nella capitale argentina è titolare, con un socio, di un’impresa di costruzioni. Lavoro e benessere, fino a poco fa. Ma con lo stato che non paga da cinque anni le opere realizzate e le banche che hanno bloccato i depositi, l’esistenza è cambiata. Adesso eseguono piccoli lavori di riparazione presso le abitazioni private. Il tenore di vita è precipitato ai minimi termini. Prima, potevano mandare i figli nelle scuole private, adesso le magre finanze non lo consentono più. Se poi si è due semplici impiegati come Jorge e Duly – lui in una piccola azienda di servizi, lei in unostudio notarile – le difficoltà da fronteggiare diventano enormi. Vivono a Rosario, 320 chilometri a nord di Buenos Aires, e vedono decurtarsi mese dopo mese i loro già magri stipendi, mentre l’appetito e le esigenze dei loro sei figli, tra i 4 e i 19 anni, non accennano a diminuire. Dopo le proteste per strada scandite dal suono di pentole e coperchi, i problemi economici e la piaga della disoccupazione si sono aggravati, falcidiando le famiglie. I dati più recenti illustrano in modo eloquente la cruda situazione: su 37 milioni di argentini, 3,4 milioni ricevono modeste pensioni, 2,5 milioni sono disoccupati senza sussidio, 3 milioni lavorano in modo precario, mentre 8 milioni sono occupati stabilmente ma con compensi insufficienti. Tra la popolazione che vive nelle città, il 44 per cento si trova sotto la soglia della povertà, e quest’ultima cifra la dice lunga sulla condizione in cui versano i bambini. La recessione economica continua ad investire il paese da tre anni e mezzo. Mai una crisi era durata tanto a lungo. Ma ad essa si è legata, in uno stretto intreccio, quella politica, sociale e morale. È un paese, l’Argentina, schiantato dal debito pubblico (164 mila milioni di dollari), che convive con un paradosso: l’alta propensione della ristretta cerchia di ricchi ad esportare i propri capitali all’estero; l’importo complessivo supera i 130 mila milioni di dollari, quasi quanto il debito del paese. “È un segno tangibile – chiariscono gli analisti – della mancanza di fiducia degli argentini nelle possibilità del paese”. Ben altra sorte spetterebbe invece a questo paese, se fossero valorizzate le dotazioni naturali di cui dispone – dal petrolio al mare pescoso, dalla terra fertile alle risorse minerali -, le caratteristiche geografiche e una popolazione culturalmente omogenea all’occidente. “La speranza è restituire all’Argentina i tratti di un paese normale”,precisa nell’editoriale dell’ultimo numero la rivista culturale di Buenos Aires Criterio. E aggiunge: “Dobbiamo reciprocamente incoraggiarci per costruire insieme una patria umile e moderna”. È un auspicio e un programma che sta trovando attuazione in un esperimento innovativo sollecitato dalle necessità: il Tavolo del dialogo argentino. “È l’unico spazio possibile alternativo alla violenza”, l’ha definito lo stesso portavoce dell’iniziativa, José Ignacio Lopez. “Bisognava ristabilire il senso del bene comune – ha aggiunto -, perché lo avevamo perso. E questo spiega la presenza a quel tavolo dei tre vescovi”. Da metà gennaio, perciò, stanno dialogando i rappresentanti delle varie componenti del paese sui temi della riforma dello stato e della giustizia, sui problemi economici e sociali, senza dimenticare istruzione e sanità. L’intento è maturare insieme proposte per il medio e lungo periodo traducibili in misure di governo. La metodologia del Tavolo risponde ad una logica ineludibile: procedere congiuntamente, perché gli argentini si salveranno operando uniti o non si salveranno. Il successo dell’iniziativa poggia comunque sulla capacità del presidente Duhalde di fronteggiare la crisi economica e di fiducia. La sua rinuncia a presentarsi alle elezioni del settembre 2003 – e dunque a non cercare tornaconti personali nel corso dell’attuale mandato – è stato un gesto apprezzato dalla popolazione. Ma ciò, ovviamente, non basta. “Abbiamo bisogno di nuovi crediti – spiega Cristina Calvo, coordinatrice generale della Caritas argentina e membro della commissione del dialogo -, non tanto per pagare debiti o interessi ma per nuovi investimenti produttivi”. E aggiunge: “Le soluzioni potrebbero venire ricercate tramite negoziati tra stato e stato. Abbiamo bisogno di investimenti in infrastrutture, macchinari, attrezzature, conoscenze. Prima di tutto, bisogna lavorare e poi pagare, al contrario di quanto è stato fatto sinora”. Movimento sell’unità argentino, scoprire il senso della politica Cecilia Di Lascio, responsabile, in Argentina, del Movimento dell’unità, animato dalla spiritualità dei Focolari, sottolinea i benefici di un approccio culturale che unisce l’azione locale ad una visione planetaria. “Questa impostazione può modificare quei meccanismi che anche nella relazione tra i paesi ostacolano lo sviluppo. Ad incominciare dal grave problema del debito estero”. Nell’attuale situazione argentina, quali compiti si è dato il Movimento dell’unità? “La funzione essenziale della politica è attuare il progetto di unità di un popolo. Riteniamo perciò che in questo momento sia necessario aiutare molti dirigenti a fortificare – in molti casi a trovare – quell’essenziale vocazione che li ha portati a svolgere una funzione pubblica. Così, attorno a noi, sia a Buenos Aires che in altre città del paese, si stanno formando gruppi di politici di diversi partiti e con diverse funzioni che alla luce dell’ideale della fraternità possono trovare nuovo impulso all’impegno di coniugare trasparenza e servizio. E questo, aiutandosi reciprocamente. “Altro nostro compito – fondamentale in questo momento di grande disorientamento – è contribuire, insieme alla chiesa, a favorire il dialogo tra tutti i settori, stimolando la partecipazione al confronto nazionale e intervenendo a tavole rotonde e congressi per sostenere e favorire la ricerca di strade di collaborazione tra i diversi settori della società. Infine, stiamo orientando la cittadinanza ad una partecipazione attiva per costruire la pace e la solidarietà sociale”. La crisi ha messo in evidenza l’impreparazione della classe dirigente. Come rimediare, secondo voi? “Con la perdita di credibilità dei dirigenti ad ogni livello, più che mai urge preparare le nuove generazioni a nuovi stili di esercizio della funzione politica. A tal fine stiamo preparando scuole di formazione politica per giovani, in cui, oltre ad una formazione teorica, si farà pratica di dialogo e di composizione degli interessi dei diversi settori, oltre che di conoscenza dei sistemi e dei meccanismi istituzionali. Saranno scuole aperte, senza distinzione di identità politica, sociale o religiosa, dove proporremo e vivremo la fraternità come espressione di un incontro attivo e fecondo, che trasforma le differenze in ricchezze condivise, nella libertà dell’impegno di ognuno a servizio della società”.