Aree marine protette in acque internazionali
La notizia è buona, ma potrebbe diventare ottima se gli Stati ratificano velocemente gli impegni sottoscritti. L’High Seas Treaty, l’accordo sulla tutela dell’Alto mare raggiunto dalle Nazioni Unite lo scorso 4 marzo è un passo importante per la protezione degli oceani, in particolare di quelle zone in cui tutti possono esercitare il diritto di sfruttamento senza alcun limite.
Il trattato prevede che, entro il 2030, il 30 per cento dei mari al di là della Zona economica esclusiva, in genere oltre le 200 miglia nautiche, sia sottoposto ad un regime di particolare tutela giuridica, affinché sia garantita la biodiversità e l’integrità degli ecosistemi marini. Il risultato è considerato storico da quanti da tempo si battono per la tutela dell’Alto Mare. Tra essi ci sono molte associazioni ambientaliste.
Dopo circa vent’anni di negoziati e una trattativa serrata di ben 38 ore, questa volta il risultato è stato raggiunto, merito soprattutto dell’High Ambition Coalition, costituita da Unione Europea, Stati Uniti, Cina e Regno Unito. Mancano ancora dei passi da compiere. Innanzitutto l’adozione formale dell’accordo, poi la ratifica da parte delle nazioni.
Colmando alcune lacune del diritto internazionale, il trattato apre la strada ad un reale processo di tutela degli oceani con la creazione di aree marine protette in acque internazionali. Il risultato rafforza, infatti, gli impegni presi, lo scorso dicembre a Montreal, nel corso della quindicesima edizione della Conferenza sulla biodiversità.
In quella circostanza le nazioni concordarono un pacchetto di misure per la “conservazione e gestione efficaci di almeno il 30 per cento delle terre emerse, delle acque interne, delle zone costiere e degli oceani del mondo, con particolare attenzione alle aree di particolare importanza per la biodiversità e il funzionamento e i servizi degli ecosistemi”.
Nello specifico l’accordo sugli oceani tende a favorire il risanamento delle specie marine a rischio con limiti alla pesca, alle zone transitabili dalle navi, alle attività di esplorazione e di estrazione dei minerali dai fondali e la istituzione di una conferenza periodica per risolvere le questioni più spinose.
Uno dei punti più dibattuti è stata la equa condivisione dei benefici derivanti da risorse genetiche marine fondamentali per la produzione di farmaci e cibo. Benché non abbiano le stesse capacità tecnologiche e scientifiche, tutti i Paesi devono potere godere della ricchezza degli oceani e contribuire alla loro tutela.
Alcune questioni, tuttavia, restato irrisolte. Si discute, per esempio, se la protezione di un’area debba essere integrale o debba valere il principio della sostenibilità. Occorre inoltre tener conto che la vita marina non riconosce l’artificiosità delle perimetrazioni imposte dall’uomo, le aree devono quindi, essere coordinate tra loro.
Nonostante tutto, il nuovo trattato fornisce strumenti giuridici più vincolanti. Saranno, infatti, necessarie valutazioni ambientali più complete prima di autorizzare attività antropiche in grado di alterare gli ecosistemi marini. Gli interessi in gioco sono alti. L’immensa ricchezza mineraria offerta dai fondali marini oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali fa gola a molti per cui si rendono necessari limiti stringenti.
Lo sfruttamento senza regole e senza controllo delle risorse marine ha di fatto impoverito in modo assai significativo gli oceani. Secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura, il 10 per cento delle specie marine sulle 230 mila censite, sono a rischio estinzione. Nello specifico il 15 per cento della barriera corallina, il 90 di squali e razze, il 67 dei pesci, l’11 dei molluschi e lo 0,1 di alghe verdi. Non si tratta solo di una perdita di biodiversità ma dei servizi che gli ecosistemi producono.
Il 50 per cento dell’ossigeno disponibile per l’uomo viene dagli oceani, qui risiede il 95 per cento della biosfera del pianeta. Sempre gli oceani assorbono quantità considerevoli di anidride carbonica, ragion per cui le acque sono sempre più acide.
A quarant’anni giusti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, temi come l’overfishing o l’inquinamento marino prodotto dalla navigazione hanno una cornice giuridica nella quale possono essere efficacemente affrontati. Se nel 1982 la Convenzione poteva essere considerata un grande risultato, oggi i suoi limiti sono evidenti.
Sono cambiate le tecnologie, i metodi di pesca, si è avuto un incremento nel trasporto marittimo con serie ripercussioni sull’ambiente oceanico. Un’inversione di rotta è, dunque, indispensabile per il bene dell’umanità.
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