Arcobaleno sul Nilo

Articolo

Due milioni e mezzo di morti, oltre quattro milioni di profughi. Non si contano i feriti, gli stupri, le violenze d’ogni genere, le devastazioni. È il bilancio di oltre vent’anni di guerra civile nel sud del Sudan, regione ricca di risorse, fra cui il petrolio, abitata da popolazioni nere cristiane o animiste, sottomesse al Sudan arabo-musulmano. Indipendente dal 1965, il paese è stato, a causa degli improvvidi confini disegnati dalla decolonizzazione, soggetto a dittatori che hanno imposto la sharia a tutte le regioni, esercitando il dispotismo più ferreo per appropriarsi delle ricchezze di quelle regioni. Forse, proprio questo eccesso di crudeltà, che da qualche anno si è riversato anche a ovest, nella regione del Darfour, musulmana pur essa, ma abitata da etnie nere, ha generato però una reazione disperata che si è concretizzata, per più di vent’anni, nella resistenza armata. È difficile dire se sia stato questo il tributo di sangue più grande offerto dall’Africa, o quello per le guerre nella regione dei Grandi laghi, o nella vicina Uganda, o nel confinante Congo. Non è difficile sostenere invece che la contaminazione della violenza ha giocato al rialzo sempre, mantenendo altissima la tensione, insaziabili gli appetiti di ricchezza, inestinguibili le faide. Mentre le potenze ex colonizzatrici, in concorrenza fra loro per allargare la propria sfera di influenza, anziché sedare, hanno alimentato il fuoco di queste guerre. E la stessa Onu è rimasta a guardare. Ecco perché la pace siglata il 9 gennaio a Nairobi in Kenya, fra il governo di Khartoum e l’Esercito popolare di liberazione del Sudan può avere un’influenza che va oltre i confini della regione di cui si discute, per avviare una pacificazione assai più vasta nel cuore dell’Africa. Per il Sudan, intanto, si inaugura un periodo di pretransizione di sei mesi durante i quali verranno create le istituzioni del nascente territorio autonomo del Sudan del Sud. Ciò dovrà consentire di insediare a Khartoum un governo di unità nazionale nel quale il capo dei ribelli sarà il primo dei vicepresidenti. Seguiranno sei anni di transizione che preluderanno ad un referendum per l’autodeterminazione e la conseguente ipotesi di secessione delle province meridionali. Solo un concreto e vigile sostegno della comunità internazionale potrà, evidentemente, consentire il pacifico svolgimento di questo processo che prevede, fra l’altro, il ritorno dei profughi. Non si può non augurare a questa splendida e martoriata regione dell’alto Nilo, che dai tempi dei faraoni ad oggi non ha cessato mai di fornire schiavi al nord – vengono alla mente le foreste imbalsamate sognate dai deportati nell’Aida – una stagione di pace vera e durevole. L’interesse mostrato dagli Stati Uniti e dall’Europa per questa firma va al di là degli appetiti finora dimostrati verso questo paese ricco di petrolio, ma punta a dare stabilità a una regione vastissima e di grande importanza strategica in cui è interesse di tutti disinnescare la minaccia del fondamentalismo islamico.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons