Arcigli: allenatore di ping pong per disabili

Alle Parilimpiadi di Pechino, nel 2008, 2 argenti e 1 bronzo. Ora prepara una dozzina di atleti ai mondiali in Corea del prossimo ottobre.
Alessandro Arcigli e Federica Cudia

Al di là dello Stretto, a Messina, vive Alessandro Arcigli, di anni 42. Di professione allenatore di tennistavolo. Del ping-pong, come è comunemente chiamato questo sport, Alessandro si innamora presto tanto che spende intere giornate a giocare ininterrottamente nell’oratorio salesiano della sua città. A 20 anni è già nominato allenatore della squadra nazionale under 15 e nel 1995 capo allenatore della nazionale assoluta femminile con cui partecipa alle Olimpiadi di Atalanta raggiungendo un più che dignitoso nono posto. Nel 2005 la grande svolta della sua vita. Gli viene proposta la direzione tecnica delle squadre nazionali di tennistavolo per disabili. Dopo una necessaria pausa di riflessione sposa la causa della disabilità con la passione che gli è congeniale.

 

Cosa hai imparato attraverso l’esperienza con gli atleti disabili?

«In questi cinque anni forse sono migliorato come allenatore, ma sicuramente sono un uomo migliore. Stare accanto a delle persone così speciali mi ha dato la possibilità di “vivere meglio” apprezzando tutto ciò che ho la fortuna di condividere con loro. Ad un atleta tedesco, privo di entrambe le braccia, un giorno hanno chiesto come facesse a giocare al tennistavolo. La risposta è stata: “Giocare a tennistavolo è facile,  tagliare la carne  è molto più difficile”. Questo episodio mi ha fatto capire che supporto persone con disabilità che praticano sport solo in alcuni momenti della  vita. Loro, invece, devono convivere con la loro disabilità sempre!».

  

Cosa cambia nel metodo di allenamento per un allenatore?

« Non cambia niente perché i miei atleti sono atleti con disabilità e non handicappati che giocano a ping-pong. Partendo da questo presupposto il mio approccio mentale è lo stesso che avevo con gli atleti della nazionale Olimpica. Poi, però, qualcosa di diverso nei metodi dall’allenamento ovviamente c’é. Ogni atleta Paralimpico ha delle disabilità, visibili a tutti, e delle abilità che vanno valorizzate al massimo. Il mio lavoro è proprio questo, nascondere le disabilità ed esaltare le abilità di ognuno dei miei atleti».

 

Com’è il rapporto con loro? Quali i momenti più difficili e i momenti più entusiasmanti?

«Il rapporto è stupendo, i momenti difficili sono tantissimi, quelli esaltanti altrettanti. Non è stato facile abbattere le barriere che le persone con disabilità hanno nei confronti delle “novità”. Si parla spesso di barriere che il mondo della “normalità” ha nei loro confronti, ma spessissimo le barriere più alte le hanno loro…i disabili. Al mio arrivo in questo mondo, non tutti  hanno preso bene la novità, sostituivo un bravissimo allenatore Donato Gallo di Napoli. Lui è diventato il mio braccio destro ed è stato fondamentale per aiutarmi a superare questo primo impatto. Senza Donato non credo ci sarei riuscito. Lui poteva benissimo ostacolare il mio lavoro, tra l’altro prendevo il suo posto. Invece ha accettato di farmi da assistente e mi ha dato il massimo supporto. Una persona veramente speciale».

 

Giocavi in un oratorio, ha avuto un ruolo la fede nella tua vita?

«Ho perso il papà a 8 anni e la mamma a 26. La fede mi ha fatto superare entrambi i momenti, i più difficili della mia vita e da sempre mi sono dedicato agli altri. Nell’ oratorio salesiano che frequentavo assiduamente ho conosciuto il tennistavolo che mi ha talmente appassionato da avermi “distratto” dalla “pratica” religiosa, ma poi mi ha dato la possibilità di restituire a chi è stato meno fortunato di me le conoscenze acquisite in tanti anni. Attraverso lo sport e quindi anche attraverso di me moltissimi disabili trovano la forza per vivere ancora ed hanno stimoli continui per non arrendersi».

 

Le più grandi vittorie …

«Alle Paralimpiadi del 2008 ci sono state le affermazioni più importanti, storiche per il tennistavolo Italiano. I successi, poi, anche questi storici, di due atlete in carrozzina ai campionati Italiani di Quarta categoria del 2007 contro atlete normodotate sono state il punto di svolta, hanno legittimato tecnicamente un’attività che prima si riteneva “solo” sociale. Abbiamo fatto capire a tutti che siamo sportivi. Con disabilità, ma pur sempre sportivi a tutti gli effetti».

 

Che significato ha avuto la medaglia d’argento a Pechino?

«La medaglia ha rappresentato per me, e per le quattro atlete Michela Brunelli, Clara Podda, Pamela Pezzutto e Federica Cudia, il coronamento di una vita di sacrifici. Gli atleti disabili, come i normodotati, hanno come obiettivo le Olimpiadi. Già dalla data del mio insediamento, nel marzo del 2005,  ho selezionato queste atlete, le ho motivate, le ho allenate, ho dato loro l’obiettivo della medaglia a Pechino e mai in passato nessuna squadra azzurra aveva vinto una medaglia alle Palimpiadi. Loro mi hanno dato credito, ci hanno creduto, hanno messo di lato parte della loro vita privata per dedicarsi all’obiettivo comune. Hanno girato il mondo e si sono allenate duramente solo perché hanno creduto nel mio sogno che con il passare dei mesi è diventato anche il loro sogno. Ed alla fine ci siamo riusciti. Loro hanno vinto la medaglia, io non sono salito fisicamente sul podio con loro, io non ho nella mia bacheca la medaglia. La mia medaglia è stata l’avere visto nei loro occhi la gioia di chi corona un sogno, di chi ha raggiunto un obiettivo di vita, di chi non si è abbattuto davanti alla disgrazia, di chi ha vinto nella vita. Il tennistavolo, le Paralimpiadi, la medaglia sono un mezzo, il fine è ben altro».

 

 

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