Archeospazio, alla ricerca dei reperti fluttuanti
Se vi aspettate racconti di Ufo, siete “allunati” sul blog sbagliato, perché l’archeologia spaziale di cui ci occuperemo va ben oltre la fantascienza e raggiunge una dimensione cosmica e culturale in cui la realtà supera decisamente la fantasia!
Pioniera dell’archeologia spaziale è un’antropologa del New Mexico, Beth O’Leary, oggi dedita alla conservazione degli “oggetti culturali” della missione Apollo 11.
Le orme di Beth le ha seguite l’astronauta italiano Paolo Nespoli che, insieme ai suoi colleghi Justin Walsh, rinomato archeologo “tradizionale”, e Alice Gorman, archeologa spaziale, è in viaggio alla ricerca di reperti fluttuanti nel cosmo.
Un viaggio questo, che ha dato vita al primo progetto di ricerca archeologica extraplanetaria e che è stato realizzato proprio a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) dove in 24 anni si sono alternati tra scienziati, militari e perfino turisti, oltre 270 visitatori provenienti da 19 Paesi e dove da poco sono in corso i primi “scavi” della storia dell’archeologia spaziale.
Scavare nello spazio, ma per scoprire cosa?
L’archeologia tradizionale ricostruisce la storia del passato attraverso lo studio dei reperti che giacciono immoti sottoterra, e così mappa il sito da esplorare con una griglia di quadrati, e dà avvio allo scavo stratigrafico asportando una sfoglia di terreno dopo l’altra.
L’archeologia spaziale, invece, ricostruisce il modo in cui gli astronauti si sono adattati a un ambiente privo di gravità, e ne studia gli oggetti/reperti che fluttuano al di sopra della Terra.
Facile a dirsi, ma nella pratica?
All’interno della Stazione Spaziale Internazionale (Iss), sono state scelte 6 postazioni campione e, servendosi di nastro adesivo, righello e scheda di calibrazione del colore, si è delimitato in ciascuna di esse un quadrato.
Sostituendo poi una fotocamera grandangolare al badile, gli astro-archeologi hanno fotografato per 60 giorni oltre 5000 oggetti/reperti posizionati all’interno dei quadrati prescelti.
Si sono così documentate le “stratigrafie”, vale a dire, in questo caso, le più piccole variazioni nelle posizioni (un paio di forbici prima dritte poi storte), nell’uso-forma (un tubetto di dentifricio) o nell’allogazione di quei reperti.
Dai differenti modi in cui gli astronauti hanno avuto o non avuto a che fare con quegli oggetti/reperti, definiti tecnicamente “materiali culturali”, è stato possibile dedurre e studiare in un “minimondo” privo di gravità, le abitudini, i comportamenti, le relazioni di genere tra gli astronauti, e perfino le interrelazioni tra le diverse peculiarità delle loro culture d’origine.
L’esperimento di archeologica spaziale appena descritto e conosciuto come SQuARE che vuol dire appunto “quadrato”, ha avuto esiti soddisfacenti.
I risultati, ufficializzati solo pochi mesi, ci dicono che «gli astronauti dell’Iss hanno utilizzato alcuni oggetti con finalità completamente diverse da quelle progettate e hanno modificato alcune aree della stazione orbitante per adattarle alle loro necessità: ciò ha rivelato l’istinto di adattabilità umana a un habitat finora estraneo alla evoluzione della sua specie».
Ma l’archeologia spaziale, senza complicarsi troppo la vita, non potrebbe semplicemente raccogliere le informazioni oggetto del suo studio, intervistando gli astronauti?
È questa la soluzione dell’“uovo di Colombo” o meglio della Columbus che è il modulo europeo agganciato all’Iss, dove hanno luogo le più incredibili ricerche archeo-scientifiche in assenza di gravità.
Ironie a parte, gli esperti di Square hanno confermato che in realtà «lo studio dei materiali culturali è indispensabile perché quando si tratta di individuare modelli di comportamento nel lungo termine, gli astronauti non sono in grado oppure non vogliono esprimersi».
Quando però si è amici di un’astronauta, è impossibile non farsi raccontare le sue missioni nello spazio.
Lei è l’astronauta italiana dell’European Space Agency (ESA), Samantha Cristoforetti, e rappresenta nella realtà scientifica dell’archeologia spaziale una risorsa così preziosa che per trovare qualcosa di simile nell’archeologia terrestre, si può solo ricorrere alla leggendaria figura di Indiana Jones. Un mito, insomma!
«Lo spazio – mi ha insegnato AstroSamantha – è il luogo in cui la forza di gravità finisce e inizia la “forza di umanità” che è invincibile a bordo dell’Iss».
Gli astronauti talvolta provengono da nazioni che sulla Terra si fronteggiano in scontri bellici, oppure incarnano culture sociali e religiose in conflitto tra loro. Ebbene tutte le divergenze e i contrasti una volta a bordo dell’Iss svaniscono insieme alla gravità e forse la scoperta più interessante dell’astro-archeologia è proprio che la cooperazione, la tolleranza e il reciproco rispetto caratterizzano quel microcosmo spaziale dove niente è dato per scontato, neanche l’aria, e dove la forza di comunità prevale decisamente su quella individuale.
Una volta, esplorando con AstroSam, un sito archeologico, solo terrestre purtroppo, le chiesi: «Ma quando ti trovi nella stazione spaziale Iss a 400 km dalla Terra, proiettata alla folle velocità di 28 mila km orari, con il sole che sorge e tramonta intorno a te 16 volte al giorno, hai mai avuto paura pensando che tra te e lo spazio cosmico ci sono solo i pochi centimetri di una “scatoletta di alluminio”?».
«Lassù – mi rispose Samantha – sono sempre concentrata sui “compiti” che devo svolgere», poi, come se fosse tornata in orbita, il suo volto s’illuminò dell’energia di tutti quei 16 soli e con un sorriso aggiunse: «Michele, quello che c’è nello spazio profondo, non è paura, ma meraviglia, come l’incredibile forma conica che vista da lassù sembra avere la nostra Terra!».
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