Arabia Saudita, polemiche sul volume dell’appello alla preghiera
La notizia ai primi di giugno è circolata anche in Italia, pur senza destare particolare interesse nei non musulmani. Il fatto è questo: il Ministero saudita per gli Affari islamici ha imposto un limite (un terzo del volume massimo) agli altoparlanti delle moschee, che dall’alto dei loro minareti diffondono 5 volte al giorno l’adhan, il richiamo alla preghiera. Si tratta del famoso Allahu Akbar (Dio è grande) che viene diffuso ogni giorno (con orari che variano da un mese all’altro) intorno alle 4, alle 13, alle 17, alle 21 e alle 23.
L’iniziativa delle autorità saudite sta facendo notizia nel mondo islamico, e sta suscitando reazioni contrastanti in vari Paesi, in Medio Oriente ma non solo. Il problema, poi, esiste da tempo: è solo di qualche anno fa (2018), a puro titolo di esempio, la vicenda di Meiliana, una donna buddista di origine cinese che viveva in Indonesia (Paese a maggioranza islamica), che aveva chiesto alla moschea del suo quartiere di abbassare il volume degli altoparlanti. La sua protesta aveva scatenato l’ira di una folla di musulmani intransigenti, che avevano saccheggiato alcuni templi buddisti e costretto alla fuga numerose persone della locale comunità buddista. Meiliana era stata riconosciuta colpevole di blasfemia dal tribunale locale e condannata a 18 mesi di reclusione.
Fin dai primi tempi dell’Islam il compito della proclamazione dell’adhan era riservato ai muezzin, che per secoli salivano sul minareto e proclamavano l’annuncio: “Dio è grande. Testimonio che non c’è altro dio all’infuori di Dio. Testimonio che Muhammad è il messaggero di Dio. Affrettatevi alla preghiera. Affrettatevi alla felicità”. Con qualche piccola aggiunta a seconda delle ore o qualche variante a seconda della confessione (gli sciiti, per esempio, aggiungono: “Testimonio che Ali è il vicario di Dio”, e alla fine “Affrettatevi a fare l’azione migliore”).
Il problema del volume di questo caratteristico canto-richiamo, che risuona ovunque ci siano una moschea e una comunità islamica, non si poneva fino agli anni 30 del secolo scorso, quando al posto del muezzin sono stati introdotti amplificatori, altoparlanti e poi registrazioni che hanno elevato i decibel (e anche migliorato la qualità della voce in molti casi). Come si è arrivati a limitare per disposizione dell’autorità il volume di questi annunci, e per di più nel Paese islamico per definizione, l’Arabia Saudita?
Pare che le proteste di molti cittadini musulmani siano aumentate sempre più negli ultimi anni a causa del frastuono che, soprattutto in certe ore, sveglia i bambini e disturba il sonno di tutti. Tanto più che si è diffusa l’abitudine da parte di certe moschee di diffondere attraverso gli altoparlanti non soltanto l’adhan (che dura solo pochi minuti), ma anche tutte la preghiere recitate all’interno della moschea, compreso il sermone del predicatore. E se questa potrebbe già di per sé essere una pratica discutibile, quando in una grande città islamica con centinaia di moschee sono sempre di più quelle che ricorrono alla proclamazione in contemporanea ad alto volume di appelli e sermoni (udibili fino a 5 km di distanza), il problema diventa reale, e non solo per chi ha il sonno leggero. L’inquinamento acustico è molto spesso incrementato nelle grandi città, oltre che dal traffico, anche da ristoranti e caffè che, nelle ore notturne e nelle festività, contribuiscono con la diffusione di musiche ad alto volume.
L’iniziativa saudita relativa alla riduzione dei volumi delle moschee ha trovato il consenso di molti cittadini (che hanno iniziato a protestare anche per altre fonti di inquinamento acustico) e provocato la reazione di chi la ritiene un’offesa alla religione. E non è stato sufficiente a placare gli animi dei più radicali il videomessaggio del ministro Abdullatif al-Sheikh, trasmesso dalla tv di stato, in cui si evidenziava il fatto che i fedeli che vogliono pregare non devono necessariamente aspettare la chiamata degli altoparlanti.
Quello che che colpisce, al di là di fatti e polemiche specifiche, è l’atteggiamento intransigente di chi non accetta di mettere in discussione nulla di quanto ritiene irrinunciabile per la propria identità religiosa, anche quando si tratta di qualcosa che non appartiene alle radici della fede, ma soltanto a tradizioni sociali. Un atteggiamento che non differisce molto da quello, per restare in ambito acustico, di quei cristiani che ritengono essenziali scampanii inopportuni o di alcuni ebrei che non possono rinunciare alle acutissime sirene che segnalano l’inizio e la fine dello shabbat.
“Affrettatevi alla felicità!” recita l’appello dell’adhan. Potrebbe essere un auspicio per tutti.