Aprire una strada nella neve vergine
L’aveva capito Josif Aleksandrovič Brodskij: la migliore poesia del Novecento arriva dalla Polonia (non solo, evidentemente). Pensiamo a Czesław Miłosz, a Wisława Szymborska, premi Nobel per la letteratura, rispettivamente nel 1980 e nel 1996 (come Brodskij nel 1987), ma anche a Zbigniew Herbert, a Jan Twardowski.
Arriva e se ne va con la Szymborska, che si spegne a Cracovia, il primo febbraio 2012, all’età di ottantotto anni. Se ne va e resta con le sue opere tradotte e curate da Pietro Marchesani, illustre polonista, scomparso – anche lui – alcuni mesi fa.
L’aveva capito Vanni Scheiwiller – illuminato editore – chi era la Szymborska, pubblicando la sua prima raccolta in italiano, nel 1993, La Fiera dei Miracoli (fuori commercio), e nel 1996 Gente sul ponte, pochi mesi prima di ricevere il Nobel.
C’è un racconto di Varlam Šalamov che dice perfettamente cosa voglia dire scrivere, tradurre, pubblicare e, infine, leggere. Lo dice parlando di tutt’altro, raccontando la prigionia nel gulag della Kolyma. Il racconto s’intitola Nella neve: «Come viene aperta una strada nella neve vergine? Un uomo avanza per primo, sudando e imprecando, muove con difficoltà una gamba poi l’altra, e sprofonda ad ogni passo nello spesso manto cedevole. […] L’uomo sceglie da sé i punti di riferimento nell’infinità nevosa: una roccia, un albero alto. […] Se si camminasse, passo dopo passo, nella traccia del primo, si otterrebbe un cammino visibile ma stretto e a stento praticabile. […] Ognuno di quelli che seguono la traccia, […] deve posare il piede su di un lembo di neve vergine e non nella traccia di un altro. Quanto ai trattori e ai cavalli, non sono per gli scrittori, ma per i lettori».
Lo scrittore per primo, e dopo di lui l’editore e il traduttore, aprono «una strada sulla neve vergine», mentre i lettori possono usare «trattori e cavalli». Così, al lettore italiano è dato percorrere i versi della Szymborska e soffermarsi sulla complessità della vita umana, poeticamente declinata con ironia ed esattezza, con semplicità e stupore.
Con ironia la Szymborska sottraeva peso al pathos, metteva a nudo la realtà, come nella famosa poesia Scrivere il curriculum, che scandaglia un gesto da cui spesso si fa dipendere il successo nella vita: «Cos’è necessario? È necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum. A prescindere da quanto si è vissuto/ è bene che il curriculum sia breve./ È d’obbligo concisione e selezione dei fatti. /Cambiare paesaggi in indirizzi/ e malcerti ricordi in date fisse./ Di tutti gli amori basta quello coniugale,/ e dei bambini solo quelli nati./ Conta di più chi ti conosce/ di chi conosci tu./ I viaggi solo se all’estero./ L’appartenenza a un che, ma senza perché./ Onorificenze senza motivazione./ Scrivi come se non parlassi mai con te stesso/ e ti evitassi».
Con stupore la Szymborska osservava le quotidiane, minuscole, meraviglie della vita, capovolgeva la prospettiva con sguardo illuminato e disarmante. Nell’edizione aquilana della mostra divulgativa itinerante dell’Infm, intitolata Semplice e Complesso, campeggiava, a commento e sintesi dei nuovi paradigmi della fisica moderna, la poesia della Szymborska, intitolata Vista con granello di sabbia: «Lo chiamiamo granello di sabbia./ Ma lui non chiama sé stesso né granello, né sabbia./ Fa a meno di nome/ generale, individuale,/ instabile, stabile,/ scorretto o corretto./ Non gli importa del nostro sguardo, del tocco./ Non si sente guardato e toccato./ E che sia caduto sul davanzale/ è solo un’avventura nostra, non sua./ Per lui è come cadere su una cosa qualunque,/ senza la certezza di essere già caduto/ o di cadere ancora./ Dalla finestra c’è una bella vista sul lago,/ ma quella vista, lei, non si vede./[…] E il tutto sotto un cielo per natura senza cielo,/ dove il sole tramonta non tramontando affatto/ e si nasconde non nascondendosi dietro una nuvola ignara».
Meglio di qualunque divulgatore, fisico, filosofo della scienza, il poeta, che non ha studiato la fisica quantistica, la complessità, il caos, dice come sia incredibile e soggettivo il nostro rapportarci al mondo reale, l’attribuire senso alle cose chiamandole per nome, osservandole, sapendo che lo sguardo, come una misura quantistica, potrebbe interagire con esse e modificarle, o lasciarle indifferenti, perché tutto «è solo un paragono nostro».
Amore a prima vista
La Szymborska era affascinata dal caso e dal destino. C’è una poesia bellissima che più di tutte le altre mostra la sua riflessione incantata. Questa volta il poeta non osserva la natura, il granello di sabbia, ma gli uomini, nel loro più antico e inspiegabile atto di innamorarsi, riconoscersi tra tanti: amarsi. La poesia s’intitola Amore a prima vista: «Sono entrambi convinti/ che un sentimento improvviso li unì./ È bella una tale certezza/ ma l’incertezza è più bella./ Non conoscendosi prima, credono/ che non sia mai successo nulla fra loro./ Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi/ dove da tempo potevano incrociarsi?/ Vorrei chiedere loro/ se non ricordano –/ una volta un faccia a faccia/ forse in una porta girevole?/ uno “scusi” nella ressa?/ un “ha sbagliato numero” nella cornetta?/– ma conosco la risposta./ No, non ricordano./ Li stupirebbe molto sapere/ che già da parecchio/ il caso stava giocando con loro./ Non ancora del tutto pronto/ a mutarsi per loro in destino,/ li avvicinava, li allontanava,/ gli tagliava la strada/ e soffocando un risolino/ si scansava con un salto./ Vi furono segni, segnali,/ che importa se indecifrabili./ Forse tre anni fa/ o il martedì scorso/ una fogliolina volò via/ da una spalla all’altra?/ Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto».