Appuntamenti con la storia
Siccome non sono più in grado di comporre libri come ho fatto finora (sa, alla mia età cominciano a venirmi dei vuoti di memoria), prima di appendere la lira al salice ho in mente di scrivere alcuni racconti… . Così concludeva l’intervista Eugenio Corti, autore de I più non ritornano, l’opera che lo rivelò come scrittore nel 1947, e del più noto Il cavallo rosso, best seller tradotto pure in giapponese. Quando nell’agosto 2004 andai a conoscerlo nella sua casa in Brianza, era impegnato nella stesura di Catone l’antico, una vicenda cruciale della romanità divenuta metafora del nostro presente. Rimasi conquistato dalla freschezza di questo 83enne signorile, modesto eppure indomito nell’affermare contro il dilagante neopaganesimo e le ideologie di morte del nostro mondo occidentale i valori del cristianesimo, e per questo osteggiato da una certa cultura laica. Dopo Catone l’antico, apparso l’anno seguente, attesi con una certa curiosità l’annunciata raccolta di racconti, che – così lasciava intendere Corti – avrebbe concluso una carriera letteraria non folta di titoli (sei romanzi, una tragedia e qualche opera di saggistica), ma tutti intensamente meditati e con tematiche che rinviano all’oggi anche quando ci trasportano in epoche lontane. Ed eccolo finalmente il libro, che lo scrittore – inviandomene una copia fresca di stampa – accompagna con lo scherzoso motto la montagna ha partorito il topolino : s’intitola Il Medioevo e altri racconti, anch’esso pubblicato da Ares, l’editrice che ha contribuito a far conoscere la statura di questo scrittore. Libro che riunisce generi diversi: dalla disamina storica al racconto, alla testimonianza… Eppure c’è dentro tutto Corti, che, come il suo grande collega Mario Rigoni Stern, è uno scrittore testimone, cioè uno che scrive fondamentalmente di quanto ha visto e vissuto in uno dei periodi più tragici della storia dell’uomo, quel XX secolo che ha conosciuto due guerre mondiali e gli orrori del nazismo e del comunismo. Da credente qual è – la fede non gli è venuta meno, anzi è uscita irrobustita da quegli stessi orrori – si è fatto una missione di scrivere a vantaggio del suo prossimo. Tra questi, i giovani che numerosi vanno a fargli visita per sottoporgli quesiti su letteratura, scienza e fede o per essere illuminati su ciò che spesso i libri di storia non dicono. Quasi a darci un saggio delle tematiche di cui ragiona con loro (in genere, studenti delle università di Milano), Corti traccia una panoramica del Medioevo, il periodo storico che sente più affine a sé perché ha dato vita ad una società sostanzialmente informata di valori cristiani, che ha prodotto in vari campi cose mirabili. Egli rende giustizia così ad un’epoca che spiriti cosiddetti liberi continuano a considerare oscurantista. Ma poi questo excursus storico si trasforma in racconto nel quale – servendosi della libertà del romanziere che colma i vuoti delle testimonianze storiche – Corti fa rivivere in modo originale, attraverso un colloquio immaginario, una lontana antenata di sua moglie. È la beata Angelina di Marsciano (1357-1435), figura singolare di fondatrice, anche se poco nota al di fuori dell’Umbria. Con questo omaggio alla sua sposa, lo scrittore ci immerge in quel Medioevo di cui ha tracciato così lu- cidamente i valori nella storia dell’umanità. Seguono alcuni racconti brevi, stesi tra il 1968 e il 2008, che accanto a gustose conversazioni tra angeli sfolgoranti e umili portinaie allineano interventi sulla contestazione del ’68, istantanee di amici esemplari (don Carlo Gnocchi, in primis), un originalissimo ex voto per la liberazione dalla schiavitù del fumo e una suggestiva Apocalisse anno duemila. Ma è soprattutto nei ricordi di guerra, riguardanti uomini e perfino animali, che si dispiegano la profonda umanità e la pietas cristiana di Corti, espresse in una prosa limpida ed essenziale, a tratti lirica. Di qui figure indimenticabili, come il piccolo Anatolio, il cui faccino denutrito spunta fuori dal camicione della sorella Alia, o il vecchio di Lesnoj, dapprima creduto una spia, ma in realtà un poveraccio affamato, poi lasciato andare mentre si stringe al petto un pane regale. Apocalisse anno duemila narra invece dell’incontro, in sogno, con il vescovo polacco Kotsilovski, morto di stenti in un carcere di Kiev, che Corti, allora sottotenente ventunenne, conobbe durante la tradotta dell’esercito italiano nella sua città di Przemysl. Lo vede aggiungersi alla schiera infinita degli altri martiri, e intanto viene da lui illuminato sul senso redentivo del dolore. Mentre così parlava, la sua figura cominciò, al pari delle altre circostanti, a rivestirsi di luce, il suo alto bastone pastorale, pur senza cambiare foggia, cominciò a germogliare foglie di palma. Non a caso il libro si chiude con questo racconto che riecheggia il più consolatorio dei libri del Nuovo Testamento. Anche se ha il sapore di un congedo, ci auguriamo che non si tratti dell’ultimo dello scrittore brianteo, sulla scia di altri grandi narratori che hanno prodotto fino a tarda età. Chi come lui è stato finora testimone, possa continuare ad esserlo fino all’ultimo.