Apocalypto

Mel Gibson ci riprova con la mistica del sangue, ormai una sua linea espressiva. E, con un grande sforzo produttivo, una regia da trhiller avventuroso, un ritmo incalzante, scene e costumi storicizzati, – il film è stato girato in una giungla dello Yucatàn – affronta il tramonto della civiltà maya, nella cui fine intravede elementi simili al nostro mondo disarticolato. Non mancano infatti accenni alla disumanizzazione della società urbanizzata, al dominio dei ricchi sui poveri, al razzismo, alla mancanza di rispetto verso la natura e verso i deboli e gli anziani… Elementi che compongono la storia di una tribù di cacciatori della giungla, semplice e pura, schiavizzata violentemente da un’altra tribù più evoluta che con sa- crifici umani tenta di placare l’ira divina che affligge il paese con carestie e malattie. Gibson, a quanto pare, si è documentato sulla civiltà maya e la sua misteriosa scomparsa: fa parlare gli attori non professionisti nel linguaggio locale – come in The Passion -, evidenzia profezie e riti antichi. Il nucleo di fondo è comunque quello di un individuo semplice – Zampa di giaguaro – che lotta per vincere la paura e ci riesce. Il film infatti è scandito da una corsa che diventa sempre più veloce man mano che si arriva alla conclusione: il giovane sfugge agli inseguitori, superando pericoli sempre maggiori, in un crescendo di tensione che rimanda ancora a The Passion, fino a quando si vedono giungere dal mare guerrieri armati di croce di spada: invece di accoglierli, come suggerisce al giovane la sposa, egli si inoltra all’interno della giungla, per preservare sé e la famiglia da quest’altra invasione. Zampa di giaguaro è perciò l’individuo che da solo diventa eroe, tramite una passione dolorosa e una vita che è corsa verso la preservazione di ideali di famiglia, di innocenza primitiva (la moglie partorisce in una grotta sotterranea invasa dalla pioggia), come in una sorta di resurrezione. Un messaggio molto americano, non privo di suggestione. Gibson non risparmia nulla alla crudeltà delle scene, sia di lotte, di carneficine o di supplizi. Perfino il parto nell’acqua si mantiene in una tensione emotiva iperrealistica. Il sangue è quasi un coprotagonista di una rivisitazione attuale di una società violenta che si autodistrugge all’interno prima di esser conquistata dagli stranieri. Accadrà anche al nostro Occidente, agli Usa? Gibson sembrerebbe sottintenderlo. Certo, questo suo lavoro è un ennesimo bagno di sangue. Viene da chiedersi se tanta atrocità ben evidenziata sia necessaria e non sia più utile all’espressività un senso della misura che gioverebbe alla linearità del lungo film. Il quale, se all’estero è stato sconsigliato ai minori, da noi invece – sempre più provinciali come idee – è stato reso visibile a tutti. Anche ai bambini. Salvo poi, tramite l’intervento politico del ministro Rutelli, vietarlo – temporaneamente – ai minori di 14 anni, mentre all’estero (che noi vogliamo sempre imitare…) è addirittura vietato ai 18. Solite cose italiane, purtroppo. Di fronte a certi media che, fiutando il vento, esigono o imprecano contro una censura di fatto inesistente, perché tesa a soddisfare non tanto il bene sociale e familiare quanto i produttori, il tormentone mediatico gibsoniano risulta quasi ridicolo: data la mancanza di una politica seria di difesa dei minori, assuefatti alla violenza dei videogiochi. Quanto a Gibson, speriamo ci venga risparmiata una terza serie sanguinaria: due sono già sufficienti.

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