Antonio Pappano maestro di voce

Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. Non c’è che dire, l’italo- anglo-americano Antonio Pappano, direttore musicale dell’Accademia, è un fenomeno. In più, con un lato umano gentile e socievole, di rispetto autentico per l’orchestra che, con lui, dà ormai il massimo, splendente negli ottoni – finalmente! – e serica negli archi e nei legni. Lo si sperimenta anche dalla duttilità con cui spazia nel repertorio.Ultimamente, Berlioz – La damnation de Faust -, Richard Strauss, le tre estreme sinfonie di Mozart. Pappano, direttore eclettico a cui piace viaggiare musicalmente, ha una peculiarità. Ama il canto, ed è capace di far cantare l’orchestra, dando voce alle diversi voci dei compositori con cui si dialoga. Mozart: l’orchestra è tutta fremiti, sussulti, ansie e ritmi frenetici, uniti a meditazioni brevi ed altissime :il dramma finisce sempre nella luce. Ad esempio, nella Sinfonia n. 40 in sol min., popolarissima, non c’è nulla di ovvio, specie nel primo tempo, essa è un respiro unanime a dire i battiti dell’interiorità, con gli archi di velluto che avvolgono nel caldo la malinconia. La damnation de Faust: il Berlioz strapotente orchestratore di un’opera che è una serie di tableaux sonori dal lavoro di Goethe viene smaterializzato con finezza, ché Pappano concatena le scene sostenendo il canto dei solisti e dell’orchestra senza violenza: i vari registri – lirici, riflessivi, fantastici – cantano con pienezza, a grandi arcate sinfoniche, a dire la storia del dotto che cerca l’immortalità alleandosi con il Male. Richard Strauss: dai Tiri di Till Eulenspiegel all’ultimo atto del Capriccio ai Quattro ultimo canti per soprano e orchestra, 1948, con il soprano americano Renée Fleming, voce pulita e calibrata. La musica dell’autore bavarese, morbidissima, avvolgente, tra languori impennate e malinconie struggenti, è stata resa dal gesto arioso del maestro su un’orchestra in stato di grazia nel suo splendore di capolavoro: quasi un Botticelli della musica. In sala si respirava tutti assieme, uno di quei prodigi che a volte accadono nei concerti. GIOVANNI BELLUCCI Un pianista italo-francese, uno dei massimi, che esegue la Sinfonia fantastica di Berlioz trascritta da Franz Liszt. Tutto di un colpo, sfibrante com’è per l’impegno mentale e fisico che richiede, per esprimere con il pianoforte una vera orchestra di timbri, colori e ritmi. L’avventura onirica e stravolgente di Berlioz palpita dallo strumento con una forza impetuosa alternata a sfumature di delicatezza impressionate, come nel terzo movimento Scena campestre. Se poi il quarantunenne pianista, aristocratico nel corpo e nello spirito, passa alla Fantasia in do magg op. 17 di Robert Schumann – a 150 anni dalla morte – qui il gioco cambia perché la passione e la fantasia si coordinano in un quadro di confessione dell’anima veemente eppur ordinato. Bellucci non esagera in nulla: preciso, appassionato, perfettamente dentro il suono schumanniano, così ricco tanto che ogni nota pare un’orchestra. Lui lo sa e ce lo fa sentire. Colmandoci di felicità.

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