Antonio Ligabue, “patrono” degli emarginati

Non solo grandi artisti conosciuti da tutti, ma anche grandi dimenticati. Fra questi l'emiliano Ligabue, presente con circa 100lavori al Vittoriano di Roma
Ligabue

Nella storia dell’arte non ci sono solo i maestri trionfatori come Raffaello, Durer, Michelangelo, Tiziano, Monet, Cézanne, Picasso e Dalì. Ma c’è la folta schiera dei grandi emarginati: Lotto, Caravaggio, il Goya degli ultimi anni, van Gogh, Modigliani e Antonio Ligabue. “El matt” di Gualtieri, paese sulla riva del Po in provincia di Reggia Emilia. Una vita da sbandato: esile, quasi deforme, nato in Svizzera da una ragazza madre, esiliato in Italia, al manicomio diverse volte, contadino e artista. Un uomo senza patria, se non la natura e sé stesso.

Un “Rigoletto” dell’arte, dal cuore appassionato. Definito come un artista naif, un ingenuo, ma anche un pazzoide, eccessivo, crudele, inquietante.

Mancava a Roma dal 1961, l’anno in cui ebbe la sua prima personale nella capitale. Oggi, dopo la rassegna a Palermo, è presente con circa 100 lavori al Vittoriano fino all’8 gennaio (catalogo Skira).

Non ho mai avuto familiarità con lui. Troppo strano, troppo “espressionista”. Ho dovuto cambiare parere, mentre stavo visitando la mostra qualche giorno fa. Gli autoritratti, per prima cosa. Diversi, appesi alla parete, parlano di un uomo sofferente, straziato dentro da una somma di dolori che solo la tela ed i colori violenti possono esprimere. E’ un volto che chiede pietà, un busto solo, guarda alla finestra circondato da prati: i tocchi di pennello danno vita a papaveri, margherite, steli d’erba, cipressi della bassa padana, larga e vivida. Inutile negarlo, mi ricorda van Gogh. Lo stesso sguardo tra il sospettoso, il cupo, l’allucinato, le pennellate crudeli ora distese altre volte puntigliose a dire un azzurro su cui vola un corvo, campi di grano con lo spaventapasseri. Pittore autodidatta come van Gogh, solo, talora aggressivo.

 

Ci fossero solo gli autoritratti ci basterebbero a delineare un artista che porta sulle sue spalle, come un Cireneo, il male di vivere, il disagio del suo e del nostro mondo.

Quegli occhi non impauriscono anzi, suscitano tenerezza: reclamano affetto. Non è l’unico artista del ‘900 a suscitare questo desiderio in noi. Penso alla pittura “sanguinosa” di un Bacon.

Ma Ligabue avverte la sofferenza nella natura, meglio negli animali. Gli pare che la guerra – quella che egli ha vissuto o almeno visto – esista anche fra loro. Nascono le grandi tele di lotte cruente – serpenti contro tigri o leopardi -, falchi dalle ali immense, gufi mostruosamente inquietanti, tigri ruggenti, galli in duello nel pollaio. Anche un gatto con la preda tra le fauci è spaventoso, una divinità animalesca che si erge tra i fiori gialli come un gigante nella campagna.

Il mondo è violento, ama il sangue. Ligabue ama i colori rossi, i verdi, i gialli acuti, aggressivi, quelli che esprimono la sua fantasia e la sua mente, sia nella vita della bassa padana che tra le giungle e le foreste.

Il grido che si alza dalle tele è forte ed è lamento. E’ anche un grido di amore alla vita. Appassionato come il Vaso di fiori (1961), posto contro l’amato paesaggio padano di forre, steli e cieli blu. Sono fiori disegnati uno ad uno, petalo per petalo, con tratto si direbbe infantile, colorati con tinte primarie, circondati da api e farfalle. Quanto è bella la vita della natura al suo sbocciare, per Ligabue e quanto amore c’è in quest’arte. Espressionista, naif o chissà cos’altro? I critici si sbizzarriscono. Io trovo Ligabue un van Gogh italico: meno popolare certo, forse meno alto, eppure come lui spiazzante e rivelatore.

Ligabue è infatti pittore di visioni: ma non sono i cieli stellati e gli astri rotanti di van Gogh, ma la lotta per la vita degli animali piccoli e grandi, nell’intricata matassa della giungla e nella dolcezza della pianura emiliana. Sotto una luce radente, drammatica. E piena di sentimento. In ogni tela in definitiva Ligabue non fa altro, come van Gogh, che raccontare il suo diario. Perciò, se proprio si vuole una definizione dell’arte del pittore matto ed emarginato, diciamo che egli è un rivelatore dell’anima degli anni nostri irrequieti e confusi. Senza filtri, così come è lui e così come siamo noi. Per lui non si può che provare tenerezza. E gratitudine.

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