Antisionismo e antisemitismo, le parole e il conflitto
Le drammatiche immagini e le tragiche notizie che dal 7 ottobre, con ancora maggiore insistenza, ci raggiungono quotidianamente nelle nostre case dal cuore insanguinato del Medio Oriente, richiedono una sensibilità non banale e una predisposizione a convivere con il pensiero complesso.
Infatti la cosiddetta questione arabo-israelo-palestinese, di per sé già articolata e non confinabile unicamente in terra di Palestina, richiama una vicenda dalle radici antiche. Coinvolge popoli, culture, religioni (in sostanza le tre monoteistiche), alimentando spesso focolai di tensione all’interno della comunità internazionale, posizionata storicamente a favore delle ragioni dell’uno e dell’altro dei contendenti o, come nel caso dell’ONU, impossibilitata, incapace di favorire un tavolo di lavoro per una soluzione condivisa.
Quanto accaduto recentemente rappresenta perciò una tappa dolorosa di un contenzioso apertosi più di un secolo fa. Da un lato lo stato di Israele, sorto quasi improvvisamente il 14 maggio 1948, al culmine della drammatica esperienza della Shoah, ma in realtà sviluppatosi anche grazie all’operato del movimento politico e culturale sionista che fin dal XIX secolo aveva cercato di accreditare presso i principali Paesi occidentali – e le rispettive opinioni pubbliche – la bontà di un ritorno degli ebrei presso la Rocca di Sion, lo Eretz Israel, la terra dei Padri abbandonata in seguito alla diaspora del II secolo d.C.
Dall’altro lato un insieme di popoli e stati, di antica e nuova costituzione (si pensi all’Egitto o alle entità formatesi alla fine della prima guerra mondiale, come Siria, Iraq, Arabia, Transgiordania), abitanti un territorio accomunato dalla cultura islamica e da secoli di radicamento, ma frammentato dalla mancanza di un processo politico-diplomatico gestito internazionalmente (troppo fragile il contesto della Società delle Nazioni) e da un percorso di sviluppo nazionale che Francia e Gran Bretagna, nella loro funzione di controllo dell’area un tempo appartenuta all’Impero ottomano, caldeggiavano con un misto tra velleità e opportunismo (il divide et impera di romana memoria, ossia cerca di accontentare tutti per non accontentare veramente nessuno e fungere da ago della bilancia).
La Palestina, in poco tempo, si è così caricata di un peso specifico alla lunga insostenibile: come conciliare gli interessi e le motivazioni territoriali, culturali e politiche di popolazioni arabe, certe del possesso e di un diritto legato alla presenza plurisecolare, insieme alla spinta di una parte del mondo ebraico volta a trasformare la stessa terra nella meta di ritorno di un popolo la cui storia e cultura originarie sono nate in Palestina e che nelle rispettive zone post-diaspora hanno conosciuto un’alternanza tra radicamento e straniamento pregiudiziale?
È un dilemma irrisolto fino ad oggi, proprio perché le condizioni di tensione permanente e le guerre periodiche (1948-49, 1956, 1967, 1973 e a seguire) hanno segnato questa terra, rendendola uno dei punti più caldi del pianeta, consegnandola ad una condizione di instabilità di cui sembra impossibile immaginare la fine. Il progetto che richiama due stati per due popoli, a conti fatti la più lineare e riproposta tra le iniziative diplomatiche, percorsa dall’Onu fin dal 1947, viene costantemente ritardata dai punti considerati irrinunciabili in sede negoziale:
a) la composizione esatta delle due entità: Stato di Israele, esistente e sovrano; futuro Stato di Palestina, con territori da confermare e confini da stabilire;
b) il riconoscimento dello Stato di Israele da parte di movimenti e fazioni palestinesi che sono nate con l’obbiettivo di eliminarlo (Hamas è una di queste);
c) la piena disponibilità palestinese dei “Territori occupati”, Gaza e Cisgiordania, con quest’ultima ambita anche da coloni ebrei che la abitano all’interno di insediamenti e che ne vorrebbero fare una parte della Grande Israele;
d) il ruolo di Gerusalemme, citata spesso come capitale dei due stati o come una free zone di cui dovrebbe occuparsi la comunità internazionale;
e) il ritorno dei profughi palestinesi, che potrebbe cambiare radicalmente la condizione etnica e numerica dei territori considerati;
f) l’uso delle fonti d’acqua, essenziali all’interno di una regione piuttosto povera di materie prime.
Quanto esposto rapidamente, ma che già offre uno spaccato importante delle complessità in gioco, fa comprendere meglio il coinvolgimento, molto spesso più emotivo che razionale, con cui ci si avvicina ai contesti inclusi nella crisi attuale.
Due parole sono ricomparse costantemente nei mass e social media di quest’ultimo periodo: antisionismo e antisemitismo. Con la prima si vuole designare l’idea di chi si oppone alla creazione e al proliferare di uno Stato ebraico in Palestina.
Con la seconda, coniata nel 1879 dal giornalista tedesco Wilhelm Marr, si definisce un insieme di concetti e pratiche legati dal pregiudizio e dall’odio nei confronti degli ebrei.
Ciò che le accomuna è il destino di un popolo, quello ebraico, il quale, con la sua diaspora (letteralmente dispersione), ha visto le proprie comunità disseminarsi in buona parte del mondo occidentale ed in parte di quello orientale, dando vita a fenomeni di profonda emancipazione ed integrazione (gli ebreo-gentili radicati da generazioni nei contesti di vecchia immigrazione) unite ad una certa malcelata diffidenza, che si è consolidata su un percorso storico segnato da un antiebraismo nutritosi di rifiuti convergenti (religioso, culturale, razziale).
In sintesi, ad un rifiuto teologico cristiano piuttosto datato (popolo ebraico = popolo deicida) e al rifiuto politico-religioso dei principi e monarchi cristiani di epoca tardo antica e medievale (esemplificato dalla campagna di conversioni forzate avvenuta nella penisola iberica tra XIV e XV secolo), si univa un rifiuto popolare, portato ad individuare negli ebrei un polo negativo (la diceria di Orléans, la grande peste del 1346-1352, etc.).
Se la diaspora ebraica aveva favorito la costituzione di reti di fiducia che rendevano possibile il proliferare dei commerci e degli istituti bancari, quindi il rafforzamento del ceto borghese, si può affermare che a questa, in buona parte, si deve la creazione di una rete inter-europea e transcontinentale tra ebrei, marrani (ebrei convertiti forzatamente al cristianesimo) ed ebrei riconvertiti che, di fatto, hanno rappresentato i prodromi della mondializzazione economica.
A partire dal XVII secolo alcune attività commerciali divengono monopolio delle comunità marrane. Gli ebrei di origine spagnola e portoghese sono stati alcune tra le figure principali del mercato bancario europeo, lo stesso che, nei secoli successivi alle persecuzioni, ha spostato il cuore del capitalismo nascente in Olanda ed Inghilterra. Da qui il collegamento diretto, spesso colorato ironicamente e pregiudizialmente, tra gli ebrei e il denaro.
L’emancipazione degli ebrei all’interno delle società occidentali non cancella il germe di antiebraismo legato al meccanismo di integrazione-separazione. Scrive H. Arendt in Antisemitismo e identità ebraica: «Più la condizione degli ebrei diventava uguale a quella delle altre popolazioni, più le caratteristiche li differenziavano e diventavano sorprendenti. Questa nuova coscienza suscitava nello stesso tempo il risentimento sociale contro gli ebrei e una attrattiva particolare. Queste reazioni congiunte determinarono la storia degli ebrei occidentali».
Una certa separazione tra ebrei e gentili, piuttosto accentuata in Occidente a partire dal XVI secolo, tra Ottocento e Novecento si è caricata del peso ideologico e culturale impresso dal fenomeno nazionalista, il quale legandosi a vincoli religiosi e identitari, volle fare delle comunità nazionali un’entità omogenea basata sui legami di sangue, in cui la matrice razziale divenne il discrimine.
In quest’ottica (Stewart Chamberlain, de Gobineau, solo per ricordare due tra gli autori più citati), in cui la razza esprime il massimo della purezza o il vertice della promiscuità, l’ebreo-gentile, colui che si è radicato e inculturato da generazioni, viene considerato come unicamente ebreo, apolide, arrogante, non un semplice cittadino. Il denaro ne costituiva il “marchio di fabbrica”.
Nella prospettiva antisemita gli ebrei penetravano la società, il mondo economico, il cuore dei centri decisionali della politica per impadronirsi del potere, sostanza vitale delle nazioni (vedi i Protocolli dei savi anziani di Sion).
L’antisemitismo, sviluppatosi all’interno di molte realtà occidentali ed orientali del continente europeo, pervadeva tutti i campi e denunciava alcuni tra gli sviluppi volti ad analizzare e modificare la società (marxismo, freudismo, la nascita della sociologia) quale persistenza del tentativo egemonico ebraico.
In un crescendo inarrestabile l’antisemitismo si fece ‘prassi ufficiale’ con l’avvento del nazismo in Germania e conobbe la sistematica persecuzione e eliminazione degli ebrei nei decenni centrali del “secolo breve”.
Il sionismo va compreso all’interno di questo ampio contesto, che dalla Shoah ricevette un’ulteriore spinta legittimante, perché l’opinione pubblica internazionale percepiva quest’ultima come una sofferenza tale da richiedere una forma di risarcimento.
La sera di sabato 15 maggio 1948, Ben Gurion, primo leader carismatico del neonato Stato di Israele, tra le altre cose diceva: «Non ci facciamo alcuna illusione sulla possibilità che il nostro cammino, anche dopo il riconoscimento ufficiale, sia in futuro cosparso di rose. Il cammino che abbiamo davanti è lungo, difficile e irto di spine» (Il sionismo, Luni Editrice, p. 94).
Forse neppure lui avrebbe potuto immaginare l’attualità e la drammaticità legata a queste parole. Come per tutte le vicende legate a concetti e strutture complesse, anche nella vicenda della crisi arabo-israelo-palestinese non si possono operare riduzionismi.
Definirsi antisionisti al tempo d’oggi, cioè considerare la presenza dello Stato d’Israele come sbagliata o nociva per il contesto mediorientale, non cambia la storia, né può indirizzarla verso soluzioni percorribili che non siano frutto di operazioni diplomatiche e discussioni politiche all’insegna del dialogo strategico e di scenari da discutersi con serietà e apertura.
Ma soprattutto la contrarietà allo Stato d’Israele, fortemente laicizzato e plurale come buona parte delle società di oggi (e che vive un momento delicato in merito al bilanciamento dei poteri sovrani e al grado di democraticità dei processi deliberativi), non può in alcun modo legittimare il nuovo proliferare di pensieri e azioni legate all’antisemitismo, quel concentrato di odio e pregiudizio che fa degli ebrei un popolo non solo da criticare – pratica che sarebbe legittima come per chiunque altro – ma da colpire e vessare nel proprio credo religioso, nelle proprie pratiche culturali, nella propria essenza, anche quando non collegato ad alcuna ipotesi di partecipazione diretta ai destini della situazione mediorientale.
La sorte drammatica del popolo palestinese, privato di una terra, disperso in campi profughi in cui mancano le condizioni basilari per una vita dignitosa e per la programmazione di un futuro normale, merita l’attenzione quotidiana della politica internazionale e dell’opinione pubblica mondiale, proprio perché sono passati decenni dagli ultimi seri tentativi di accordo.
Questo richiederebbe una road map decisa, una volontà ferrea, la costruzione di un percorso umanitario che sappia spegnere odi e rivalità, riconoscendo quelle ragioni e quei diritti (per i quali ognuno deve essere pronto a rinunciare a qualcosa per guadagnare qualcosa) capaci di togliere forze ed argomenti ad azioni fondamentaliste che non avvicinano soluzioni, ma solo perpetuano una catena mortale di lutti e propositi di vendetta.
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