Antibo e il piccolo male
Spenti i riflettori, il mezzofondista italiano corre ancora. Stavolta per vincere sull'epilessia.
Con il suo passo ciondolante e dinoccolato, ogni giorno corre per 45 minuti. Non in solitaria come sulla pista di Spalato, agli Europei del ’90, indiscusso primatista sui 5 e sui 10 mila.
Al fianco di Salvatore Antibo, recordman dell’atletica italiana, che seminava gli avversari senza voltarsi indietro, oggi c’è Tommaso, pensionato, di 63 anni. Vigila sulle scorribande mattiniere del campione, per le strade di Altofonte, piccolo comune del palermitano, dove Totò vive con moglie e due figli piccoli. «Tanti vogliono correre con il grande Antibo, ma Tommaso può soccorrermi», spiega l’atleta. Nessuno può strappargli la passione per la corsa, neppure l’epilessia, “il piccolo male”, come lui lo chiama, con cui convive dai Mondiali di Tokyo del ’91, quando una crisi lo fece retrocedere dal primo all’ultimo posto in finale.
Su Antibo si sono spenti i riflettori dell’atletica, ma lui continua a dar battaglia. «Passare da grande campione, con un argento alle Olimpiadi, a ragazzo epilettico non è stato facile». Trema ancora la voce al ricordo di quei momenti: «Ho trascorso due anni chiuso in casa: il mio mondo era cambiato radicalmente». Poi con agilità scatta in avanti, come sulle piste: «L’epilessia è una malattia da cui non si può guarire, ma di cui nessuno si deve vergognare – riprende con grinta –. Sono arrivato anche a venti crisi al mese. I farmaci le controllano, ma non le arrestano. A volte mi soccorrono i miei figli, hanno imparato, non posso rimanere da solo. E non è facile vivere chiedendo aiuto agli altri, persino per prendere un gelato fuori».
Non ha la patente Antibo, e fino al 2004 neppure una pensione: sono stati i risparmi a consentirgli di vivere e sostenere le cure costose, prima di essere beneficiato dalla legge Onesti, che assegna un vitalizio ai campioni. «Sono stato dimenticato, ma non mi pento di aver dichiarato la malattia, non potevo far male ad altri: tecnici, atleti, famiglie. Non potevo per la mia testardaggine rovinare tante vite». L’equivalente di una condanna a morte, nel mondo dello sport.
«Non volevo arrendermi – prosegue –. Ho consultato tanti medici, ma era impossibile gareggiare imbottito di farmaci. Ho chiesto scusa alla federazione per le mie reazioni irruenti. Ho sbagliato. Avevo 29 anni nel periodo più bello della mia vita, giravo il mondo, a Tokyo potevo vincere e tutto si è infranto».
Lui, ragazzino con la terza media, che non conosceva neppure l’esistenza dell’atletica, aveva ceduto all’insistenza di un insegnante per un provino con Gaspare Polizzi, suo allenatore e tecnico: «Un padre». Totò non si stanca di ripeterlo. È stato lui a incoraggiarlo, «sei un numero uno». Lui l’ha fatto diventare «grande». Ed è stato lui a suggerirgli il ritiro «da campione». Un campione anche giù dal podio. Antibo continua, infatti, ad essere amato e stimato. La Lega per l’epilessia lo ha scelto come testimonial, a lui è stato dedicato un documentario allo Sport film festival: «Un atleta deve essere sempre educato verso gli avversari, deve imparare a riconoscere le sconfitte e i meriti dell’altro – mi dice con sicurezza –. Deve complimentarsi con chi l’ha battuto e non prendersela. E poi, se vuoi diventare un grande, non puoi pensare a divertimenti notturni e soldi».
Lui è rimasto il ragazzo semplice del Cus Palermo, con una grande fede, che in questi anni l’ha sostenuto: «Anche da Gesù puoi imparare ad essere un grande». Vorrebbe insegnare ad altri, ma dal 1984 aspetta nel suo paese un impianto sportivo, di cui ad oggi non c’è traccia. «E io purtroppo non posso spostarmi». «Sai qual è il mio vero sogno? – mi dice da birbone –. Ne ho uno, da padre: mio figlio piccolo ha le caratteristiche per seguire le mie orme. Poi un altro da atleta: aspetto un nuovo Salvatore Antibo, che manca alla federazione da 20 anni». Totò da quella pista rossa non è mai uscito.