Ansia da lavoro, workaholic e riconoscimenti
Quasi un terzo della nostra esistenza la trascorriamo al lavoro: se pensiamo al nostro tempo di veglia è circa la metà. Il lavoro nobilita l’uomo, dà il pane quotidiano, talvolta è strumento di gratificazione e di autorealizzazione se attraverso di esso si esprimono i talenti o se rappresenta una missione carica di significato esistenziale.
Quello di lavoro è anche un luogo dove si vivono quotidianamente amicizie e relazioni conflittuali, soddisfazioni e situazioni stressanti, in qualche caso può diventare un contesto ostile o difficile da gestire. Le complicazioni possono dipendere da vari fattori, non c’è quasi mai una sola causa ai problemi, guardando ai conflitti e alle incomprensioni occorre spostarsi su diverse angolazioni, osservare la questione dai differenti punti di vista. Alcune volte questi problemi sono di natura strettamente relazionale e altre volte ci sono aspetti legati all’organizzazione del lavoro; talvolta entrambi i fattori interagiscono.
I temi del benessere e del clima organizzativo sono oggetto di discussione da molti anni e da qualche tempo anche di attenzione normativa. È dimostrato da diversi studi, infatti, che la capacità dell’azienda di diffondere e promuovere il benessere dei collaboratori abbia un forte impatto sull’efficienza e sulla produttività.
Sono varie le storie e i problemi che ascolto, penso a Maria e alla fatica di svolgere le sue attività dovendo gestire colleghi ansiosi che entrano in apnea di fronte ad imprevisti ed urgenze. La trappola in cui è facile cadere è: “tutto importante, tutto urgente”. In questo caso può essere utile riconoscere l’effettivo sovraccarico lavorativo collaborando insieme, allo stesso tempo occorre mantenere una certa distanza emotiva che permetta di riorganizzare le attività e affrontare la complessità con lucidità.
Un fattore determinante è la capacità di impostare le priorità per la gestione del tempo distinguendo le emergenze da fare subito dall’urgenza da fare in giornata, dalle cose da mettere in agenda, importanti e non urgenti, alle cose di importanza minore, per finire con le attività non importanti. Questo è un modo per gestire il tempo razionalmente e non in balia del panico, valutando le conseguenze che potrebbe determinare il fare o non fare delle singole azioni e attività.
Un’altra condizione che a volte si viene a presentare al lavoro è il workaholic (ubriachi di lavoro): è una condizione dannosa sia per chi la vive che per le relazioni con gli altri nel contesto professionale. È l’ubriacatura di chi è “dipendente” dal lavoro, intossicato dal voler lavorare sempre e comunque, con ritmi intensi e un tempo dedicato solo al versante dell’attività professionale. È colui che è drogato di lavoro e attraverso di esso identifica la propria identità esistenziale. Per chi ne è affetto, tutto ruota attorno alla professione, secondo il vissuto della persona e la sua percezione anche gli altri dovrebbero fare lo stesso: pretende un rapporto analogo con il lavoro anche da parte dei colleghi. Questi ultimi, dunque, vengono pressati a seconda delle situazioni e delle urgenze reali o presunte. Il workaholism è una nuova forma di dipendenza che si aggiunge a quelle più note come il gioco d’azzardo, le droghe, l’alcol, internet. Per uscire da questa forma di tossicodipendenza occorre farsi aiutare da psicoterapeuti esperti in tale senso.
Un altro problema (molto differente dai primi) con cui spesso mi trovo a confrontarmi sono le questioni conflittuali dovute al “non riconoscimento reciproco”. Spesso accade che si proietta nel capo o nel collega una figura che in qualche modo “dovrebbe” accorgersi del contributo e delle capacità che si mettono in campo riconoscendole. Chi attende questo riconoscimento è iperattento a quelli che sono i feedback al termine di un’attività o un compito, ricerca consenso, desidera fortemente avere un ritorno anche solo affettivo o dimostrato attraverso un compenso economico o un avanzamento di carriera. In questi casi si ha la necessità di essere “visti” e non sempre questo bisogno viene soddisfatto, ciò crea un’aspettativa frustrata, con conseguente dispiacere, disagio e rabbia. In questo caso occorre imparare a conoscere se stessi, accogliere i propri bisogni, selezionare ciò che può essere “nutriente” e gratificante, come il fatto di aver fatto un buon lavoro per il cliente (quindi aver raggiunto con competenza un obiettivo); lasciando andare ciò che non si può controllare.
Inoltre, un primo passo per costruire relazioni fatte di riconoscimento reciproco è iniziare a riconoscere gli altri. I grandi obiettivi si raggiungono insieme, ciascuno offre un particolare contributo.