Anno nuovo col nuovo anno?

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Anche a Baghdad il nuovo anno è incominciato il 1° gennaio. Ma l’anno nuovo, quello di svolta, potrebbe essere incominciato in quella domenica 14 dicembre, giorno della cattura del deposto presidente iracheno Saddam Hussein. Le vicende dell’immediato futuro, o, più probabilmente di un domani meno vicino, ce ne daranno eventuale conferma. Certo è che l’immagine del volto provato e rassegnato dell’ex dittatore iracheno resterà fissa nella memoria collettiva di tanta parte del pianeta. Per gli estremisti islamici che hanno dato voce ad un malumore diffuso, quei fotogrammi sono stati “un insulto a tutti gli arabi e un’offesa al mondo musulmano”, come ha tuonato il gruppo palestinese Hamas. Forse la regia americana poteva essere più accorta nella diffusione delle sequenze di un Saddam catturato. Ma, certo, la scelta è stata intenzionale. “Questa è una guerra affidata alle immagini – chiarisce Vincenzo Buonomo, docente di diritto e organizzazione internazionale – e quelle relative allo stato di prigionia dell’ex presidente iracheno abbondano di messaggi. Messaggi con un forte impatto per le masse arabe e per quanti sostenevano Saddam: ecco com’è ridotta la persona cui facevate riferimento. Messaggi per le varie componenti irachene, poiché alla cattura dell’ex raìs ha contribuito la componente curda della popolazione dell’Iraq. Se poi troverà conferma che all’arresto ha contribuito la stessa cerchia di persone vicine a Saddam, le immagini volevano far capire che l’ex capo di stato era ormai una persona controllata dai suoi. La presenza, infine, di quella valigia con 750 mila dollari ha ridotto il leader ad un comune bandito che cerca di scappare col bottino dal luogo del delitto. Così Saddam è stato demitizzato”. Pendono sulla sua testa le accuse più pesanti. Gli sono imputate tutt’e quattro le grandi categorie di crimini internazionali: aggressione (contro il Kuwait), crimini di guerra (uso delle armi chimiche nel conflitto Iraq- Iran, intenzionale inquinamento delle acque del Golfo Persico con la fuoriuscita del greggio dagli oleodotti di Bassora), crimini contro l’umanità (mancato rispetto delle garanzie per i prigionieri di guerra, sottoposti a torture e uccisioni nel corso dei conflitti contro Iran e Kuwait); infine, il genocidio perpetrato contro i curdi con il ricorso al gas. Davanti a questi capi d’imputazione il diritto internazionale sancisce che qualunque paese al mondo ha il diritto (e il dovere) di giudicare l’ex uomo forte dell’Iraq. Nel caso di Saddam Hussein, “le forze militari di occupazione ” – facendo ricorso ai termini della risoluzione 1511 dell’Onu – che lo detengono hanno l’obbligo di giudicarlo o consegnarlo a chi può processarlo. Non è invece possibile il ricorso alla Corte penale internazionale (gli Stati Uniti non ne fanno ancora parte), perché la competenza della Corte inizia nel luglio 2002, mentre i reati commessi da Saddam sono antecedenti a quella data. Il caso di Milosevic, ad esempio, è diverso a motivo del fatto che il tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia era già istituito al momento dell’arresto di Milosevic stesso. Ultima ipotesi, il ricorso ad un tribunale internazionale, sulla scorta delle esperienze di Norimberga e Tokyo alla fine della seconda guerra mondiale. Ma resta, per gli esperti, una prospettiva improponibile. La strada più praticabile sembra perciò quella di un processo affidato ad un tribunale iracheno, magari integrato da giudici internazionali. Mancano tuttavia alcune condizioni di fondo. “Attualmente l’Iraq – spiega il prof. Buonuomo – non ha una struttura di stato in grado di garantire un’efficiente funzione giudiziaria. Inoltre, c’è da valutare se e in che termini i reati imputati a Saddam sono contemplati dalla legislazione irachena, che è quella del precedente regime”. Commenta: “Svolgere un processo nel contesto di uno stato ancora senza poteri mi sembra una forzatura. La funzione di questo processo va valutata, secondo me, in rapporto ad un cammino di riconciliazione nazionale”. La condanna nei confronti di Saddam è un atto dovuto, quasi automatico, spiega. “Ma condannare lui non basta. Il processo dovrebbe servire a chiudere i conti con il vecchio regime. Per cui, insieme a Saddam dovranno essere sottoposti a giudizio anche quanti hanno collaborato con lui nel commettere i reati di cui è imputato”. Niente fretta, allora, nel giungere al processo. “Realizzarlo in tempi brevi forse è tecnicamente possibile, ma produrrebbe contraccolpi dal punto di vista politico, costituirebbe un fattore di ulteriore lacerazione interna. E questo è proprio ciò che va evitato, perché la popolazione è formata da tante componenti. Lo si vede nell’attuale governo provvisorio, in cui si nota che l’abitudine allo scontro è più radicata di una coesistenza in termini politici”. Quindi c’è bisogno di un Iraq con uno stato funzionante. Tempi lunghi, perciò, quasi quanto quelli di un processo in Italia. “I tempi brevi sono smentiti anche dai processi in corso a situazioni “analoghe”. Penso ai responsabili del genocidio nella zona dei Grandi Laghi, in Africa. Penso a Milosevic. I processi sono, tutto sommato, abbastanza “semplici”, eppure non arrivano a conclusioni. Sappiamo ben poco dei loro lavori”. Ma non c’entra la burocrazia. “Il lento procedere dipende da una volontà politica di carattere interno ed internazionale, perché ci si rende conto del possibile impatto lacerante della condanna in situazioni in cui le ferite si stanno lentamente rimarginando. Ecco il senso dei tempi lunghi”. Con la cattura di Saddam Hussein, viene da augurarsi che Bin Laden, pur non in sintonia con l’iracheno, si trovi adesso un po’ isolato. Al-Qaeda senza più appoggi in Iraq e senza un protettore forte come Saddam Hussein. Sarà indebolita nei suoi collegamenti terroristici? “Non credo. Non c’è da abbassare la guardia rispetto al fenomeno terroristico. Al-Qaeda conduce infatti un conflitto de-localizzato, in cui ha bisogno di referenti ma non vive sulla base dei referenti. Ha infatti un’attività abbastanza autonoma dal punto di vista strategico rispetto a quelli che, di volta in volta, diventano poi i necessari punti d’appoggio”. La fine di Saddam Hussein potrebbe condizionare il futuro politico di alcuni paesi limitrofi. “Possono sentirsi sotto pressione tutti quei paesi il cui regime è legato ad una persona: come non leggere in questa linea la recente decisione della Libia circa il nucleare? Nell’area mediorientale la fine di un leader significa spesso l’epilogo di una fase storica di quel paese. La vicenda irachena è comunque una sorta di avvertimento dal punto di vista politico, perché altri paesi dell’area hanno quanto meno una struttura di stato o di governo che, se non è in tutti i casi dittatoriale, è molto, molto autocratica”. In questo contesto riguadagna centralità il ruolo dell’Onu. “Può essere il garante della transizione dall’occupazione militare e dalla distruzione del precedente regime alla costruzione del nuovo stato. Può fungere da osservatore attento che cerca di far passare all’Iraq senza imposizioni, l’idea di cosa possa significare una società democratica, il rispetto dei diritti dell’uomo, la divisione dei poteri, ecc. Un ruolo pedagogico a nome della comunità internazionale, e non è da escludere che poi debba svolgerlo anche con una presenza di forze di sicurezza delle Nazioni Unite, come è avvenuto a Timor Est e continua nei Balcani”. MONS. WARDUNI LE ATTESE DI BAGHDAD Dopo un giorno di tentativi telefonici andati a vuoto, ecco che, al momento buono, risponde di persona da Baghdad proprio mons. Slamon Warduni, vicario del patriarca di Babilonia dei caldei. Prima, durante e dopo la guerra è stato voce della popolazione irachena. Per questo chiediamo a lui quali siano le aspettative, i timori e le speranze della sua gente. La prima necessità, non si fa fatica ad immaginarla, è un minimo di sicurezza. “Ci sono molti terroristi e tanti malfattori che stanno seminando la paura e lo sgomento negli animi. Come voi vedete ogni giorno, c’è una sequenza ininterrotta di atti terroristici, per cui la popolazione è molto angosciata. Nemmeno durante le ultime guerre, nemmeno durante l’embargo ci siamo ritrovati in una situazione del genere. Corriamo pericoli dappertutto, perché ovunque un auto può scoppiare e un terrorista farsi saltare in aria. Ci sono stranieri che vengono da fuori con l’intento di distruggere la nostra nazione. Eppure, abbiamo detto tante volte agli americani di incominciare a sorvegliare le frontiere, altrimenti continuerà ad entrare chiunque e i nostri guai saranno sempre più gravi “. Adesso si aggiunge anche un “fenomeno mai accaduto prima: il rapimento di persone per poi chiederne il riscatto”. Benefici per la popolazione non sono comunque mancati. “I salari sono stati corrisposti ai soldati, ai maestri e ai professori, mentre gli anziani ricevono la pensione”. Tanta parte della popolazione, tuttavia, non percepisce entrate e manca il lavoro. “Manca perché c’è molta paura. Prima, chi aveva un negozio restava anche fino alle dieci di sera. Ora, dopo le tre del pomeriggio chiudono: troppi rischi”. Così si fa strada in tanti la prospettiva di lasciare il paese. Allo stato di grave precarietà si aggiungo i postumi della guerra. “Abbiamo bisogno di infrastrutture ripristinate, in modo che possano funzionare i servizi essenziali. La luce c’è per 4-6 ore al giorno, ma spesso i terroristi bombardano le linee elettriche. Non si salva nemmeno il telefono. Lei è riuscito a raggiungermi, ma io non posso chiamare fuori e nemmeno telefonare in altre parti di Baghdad”. La pace, per mons.Warduni, significa anche “una polizia irachena costituita e formata” e “un recupero di tutte le armi in possesso alla gente, magari comprandole”. E tutto questo “farlo in fretta, altrimenti ci ritroveremo nel caos, perché i terroristi sono sempre più numerosi, vogliono creare un vuoto enorme per avere completamente mano libera”. Confidate negli alleati o nell’Onu? “Adesso gli iracheni vedono gli stranieri come sfruttatori e quindi vogliono cacciarli al più presto. Per il momento, comunque, gli alleati devono rimanere, altrimenti sarà la fine dell’Iraq. Ma devono far funzionare il paese. E farlo in tempi brevi. L’Onu può aiutare gli americani, sollecitando la rapidità degli interventi. Poi, inviare soldati di varie nazioni per fare vedere che la presenza in Iraq non è dettata solo da interessi, che il mondo ama il nostro paese, come danno prova gli italiani”.

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