Anna Maria Ortese, la ragazza che voleva scrivere
Di Adelia Battista avevamo già letto Ortese segreta e Bellezza addio ed oggi ci troviamo tra le mani un terzo libro dedicato ancora alla Ortese: Anna Maria Ortese, la ragazza che voleva scrivere (Lozzi Publishing edizioni).
Questa volta, invece, la Battista ci presenta un vero e proprio racconto, nel quale ricostruisce, con sapienza letteraria, uno dei momenti più intensi e produttivi della Ortese, quello che ha visto nascere Il Porto di Toledo, che fu una delle opere più innovative e visionarie del secondo novecento italiano.
Un’opera che ancora oggi affascina e sgomenta chi l’avvicina, in quanto non risponde ad alcun canone, e come si sa il nuovo e l’inusitato spaventano. In un linguaggio poetico inesplorato, magico e musicale insieme, a tratti teso e vibrante, la Ortese, attraverso un originale ritmo narrativo formulato ad onde concentriche su ampi scenari di una Napoli tutta luce e bellezza, Il Porto di Toledo ci racconta la scoperta dell’espressività di un anima adolescente che vive precocemente la perdita: la Ortese parlerà proprio di lutto adolescenziale.
Il racconto della Battista prende inizio a Milano nel 1969 quando la grande scrittrice, proprio nel copoluogo lombardo, dove s’era trasferita con la sorella Maria, scrisse la prima stesura di Toledo. Anni socialmente inquieti che non offrirono alla Ortese quella pace silenziosa di cui aveva bisogno per scrivere.
“La contestazione degli studenti, avviata sommessamente, sarebbe divampata come una fiammata. La stessa aria della città era cambiata, sembrava più elettrica. Anna Maria non avrebbe più dimenticato quei giorni d’incertezze e di notizie preoccupanti. Le strade erano attraversate da lunghi cortei…gli studenti lanciavano sassi e bottiglie molotov contro i poliziotti che rispondevano caricandoli con gli idranti delle autobotti…Rientrava a casa tremante e atterrita”. Ripensò allora con insistenza agli anni felici del dopoguerra a Napoli, alla scelta socialista fatta con i suoi amici, a quel fermento di idee e sogni in casa dell’amico Prunas. Volti e luoghi che, misteriosamente, le chiedevano di essere riportati in vita con lo slancio ideale che fu di allora. “Più il passato era remoto più le emozioni si espandevano ed erano vive” e la memoria divenne l’unica possibilità per collegare il turbolento tempo presente con il passato, rivivendo quei momenti indimenticabili in cui nasceva la sua vocazione alla scrittura.
Anna Maria Ortese lavorò intensamente a quella prima stesura che le urgeva dentro. Tuttavia pur sentendo forte l’impeto interiore che la costringeva alla pagina scritta, c’era qualcosa nell’aria che le si frangeva contro e le impediva quasi di completare la sua opera. Sì c’era contraddizione tra la memoria felice e la violenta rumorosità di quei giorni milanesi. Di qui il desiderio e la ricerca della possibilità di un allontanamento, la ricerca di un luogo dove la memoria del passato potesse conciliarsi con la sua dirompente e nuova espressività.
Sognò allora di ritornare a Roma, luogo amato e mai perduto, e si rivide in quella piccola stanza tra Monte Bario e la Balduina: “Una sola grande stanza, una cucina, e per mobilio molte casse, qualche sedia, i letti, e pochi quadri dipinti da Maria” dove nel silenzio della minuscola cucina, vicino all’acquaio aveva scritto L’Iguana, un libro felice nato da una sola idea: “Ogni piccolo gesto di umanità vale l’opera omnia di Marcel Proust”. Parole, volutamente esagerate, commenta la Battista, ma che “restavano impresse nei suoi interlocutori, soprattutto nei più giovani, che ne ricavavano una riflessione duratura. Nell’infinito orizzonte dei valori, per Anna, ancor prima di ogni letteratura, è il soccorso portato ai più umili a suggerire la speranza negli uomini.”
Sì, a Roma desiderava tornare, ma le mancava il coraggio di parlarne con la sorella che sapeva bene inserita nella città di Milano. Per cui quel giorno in cui Maria, inaspettatamente, le confidò che sognava di tornare al Sud, fu per lei un giorno memorabile, un riaccendersi di speranze e di felicità improvvisa.
A Maria sembrava logico che si tornasse a Napoli, e invece no, per Anna Maria sarebbe stato troppo doloroso, anche perché come lei spiegò: “A Napoli ho perso tutto. Non ho più nessuno”. E si decise insieme di scendere a Roma.
La Ortese, d’altra parte, col suo Toledo voleva innalzare un monumento di bellezza alla sua Napoli, ma poteva farlo solo restandone lontana.
Una lettera scritta all’amica fedele Graziana, sotto l’urgenza tutta interiore di terminare il suo romanzo, permise così ad Anna Maria e a sua sorella Maria di ritornare a Roma in una casa particolarmente felice, dove c’era silenzio ed un giardino: proprio come lei desiderava.
E fu a Roma che la Ortese ritrovò l’ispirazione piena che le permise di addentrarsi dove pochi avevano osato: “Raccontare il tempo nel suo trascorrere e mutare”; non la storia della sua vita ma le emozioni interiori che “avevano accompagnato quel tempo”. E ogni sera prima di addormentarsi, dopo aver riletto quanto aveva scritto la mattina, si addormentava stringendo tra le mani la Bibbia.
Roma fu la città di pace che le permise di completare quell’opera straordinaria alla quale Anna Maria continuerà a lavorare fino agli ultimi giorni della sua vita, riscrivendolo più volte.
Ma la Battista non poteva chiudere il suo racconto senza rivelarci il dolore che quell’opera provocherà nella Ortese, forse il dolore più grande che la fedeltà all’espressività le aveva procurato. Quella prima edizione fu un disastro: rifiutata dai critici e dai lettori fu “mandata al macero”. Un dolore che, tuttavia, non la piegò, anzi sarà motivo di nuova ispirazione come rivelerà nell’altra grande opera che comparirà anni dopo, Il cardillo addolorato.
Un libro intenso questo della Battista; uno dei più belli scritti sulla Ortese perché attraverso una scrittura poetica e lievitata dall’amore ci permette di ritrovare una Ortese viva, di cogliere il suo respiro di luce, la sua dimensione di assoluta umanità, quell’umanità e quel respiro di cui oggi sentiamo tutti un disperato bisogno.