Anna Bolena a Roma
Il sussurro come brezza del tremolo degli archi, l’arpeggio morbido del clarinetto, e la voce di Anna si innalza nell’ultima preghiera prima della morte: “Cielo, a’ miei lunghi spasimi”.
La sala del Teatro dell’Opera è invasa in un silenzio denso dalla bellezza della musica nel canto del soprano Maria Agresta, delicatissimo, preciso, che ricorda da lontano Maria Callas.
È questo, insieme al concertato finale dell’atto primo forse il momento più bello della rappresentazione dell’opera di Donizetti a Roma. Diretta con cura meticolosa e con pronta risposta dell’orchestra da un esperto del repertorio belcantistico come Riccardo Frizza.
L’allestimento, coprodotto con la Lithuanian National Opera si avvale di una costruzione – ascensore, prigione, camera da letto – in mezzo al palcoscenico, intorno a cui si svolge l’azione.
La regia piuttosto statica di Andrea De Rosa non è troppo creativa, comunque lascia cantare le voci in un lavoro eseguito senza tagli – cosa molto rara, anche in disco -, quindi lungo e impegnativo per i cantanti.
Una fatica quindi per il cast, da Maria Agresta che debutta in Anna (e talora lo si sente nella tendenza a”forzare”) e alla quale il direttore concede delle “puntature” forse non tutte necessarie; a Carmela Remigio, pure debuttante come Giovanna Seymour (voce robusta) al Percy “sparato”di Giulio Pelligra.
Emerge su tutti l’Enrico VIII di Alex Esposito, voce bella, forte e flessibile, capacità attoriale naturale, a suo agio nel Belcanto. Cosa che, a quanto pare, non risulta così immediata per le voci femminili, il cui repertorio passa dal verismo al belcanto con frequenza.
L’opera, è noto, risale al 1830 e fu il primo grande successo di Donizetti, narrando di Anna, ormai vittima di Enrico VIII innamorato della Seymour, sospesa tra ambizione e rimorso verso la regina tradita.
Una” tragedia lirica in due atti” sui versi molto belli di Felice Romani e con quella scena di follia, molto romantica, che segna l’acme della partitura nel finale secondo, tra rimpianti, preghiere, sdegno e perdono.
L’orchestrazione è sempre raffinata, la bellezza musicale dei cori accattivante, i l senso drammatico si innerva con melodie graffianti o dolci di grande sensibilità. Il tono generale è un manzoniano sentimento di pietà per le sventure umane (al femminile) ed una dolcissima malinconia, un senso patetico della “rimembranza”. Capolavoro. A Roma manca da 40 anni, è da non perdere. Fino al 1 marzo.