Angkor, la fede di pietra
La bellezza e la grandiosità di uno dei siti archeologici più importanti al mondo. Che svela un popolo.
M’accade di solito quando l’attesa è stata lunga. Anche stavolta le ore che precedono la conoscenza di un luogo si distendono nella tranquillità di un rito d’iniziazione così evidente che non potrà in ogni caso deludere. Non solo perché mi reco a visitare dei templi di per sé straordinari, ma soprattutto perché andrò alla ricerca delle tracce di credenze delle centinaia di migliaia di persone (forse addirittura milioni) che, appena dopo l’inizio del secondo millennio, abitavano quello che forse all’epoca, tra XII e XIII secolo, era la più grande città del mondo.
Ma come trovare queste tracce, quando è notorio che solo i templi hanno lasciato delle vestigia, tutto il resto essendo andato distrutto, costruito com’era in materiale fragile, legno o bambù? No, le tracce della fede restano incollate non solo e non tanto alle pietre, ma si ritrovano anche iscritte nella natura e volteggiano nell’aria. Nutrono l’anima del popolo.
Alba all’Angkor Wat
Il rito dell’attesa dell’alba dinanzi all’Angkor Wat non è evitabile. Meno male che fa ancora notte, così intuisco appena la folla di cinesi e giapponesi in batteria. Poco male, basta “conservarsi” nell’intimità dell’ora e del luogo, cominciare a calpestare le pietre sconnesse dell’accesso alla Porta orientale del tempio e ascoltare il mormorio delle acque del grande fossato che traccia un quadrato di 1500 metri per 1300 attorno all’Angkor Wat propriamente detto. Pietre che altri hanno calpestato secoli addietro, per portare la loro offerta agli dèi del pantheon indù, Vishnu in particolare. Il simbolismo del luogo è straordinario. Basti sapere che il fossato rappresenta i mitici oceani che circondano la Terra (quadrata), mentre la successione delle gallerie concentriche rappresentano le catene montagnose che circuiscono il più sacro dei rilievi, il Monte Meru, residenza degli dèi. Le torri non sono altro che la rappresentazione dei picchi dell’Olimpo indù.
Avverto il peso di secoli e secoli di sofferenza di un popolo che ha saputo e dovuto farsi allegro e sorridente per non soccombere alla disperazione. Fin ai giorni dei khmer rossi, che persino in queste foreste hanno portato il loro terrore.
Qualche centinaio di metri e i primissimi bagliori dell’aurora disegnano nel cielo blu che si imbelletta di rosso il profilo del tempio principale, il più conosciuto al mondo tra tutti quelli di Angkor, ma anche il meno noto, perché varia non appena ci si sposta di qualche passo. Tutto muta nello spazio d’un lampo e tutto permane nel tempo dell’eternità. E tutto ciò non sarebbe parte della fede del popolo khmer, e non sarebbe evidente nell’alba e nella luce?
L’Angkor Wat è certamente il capolavoro della città dei templi – la sua storia è nota: fu costruito all’apice dello splendore khmer, nella prima metà del XII secolo, sotto il re Suryavarman II, con delle aggiunte più tardive –, e non potevo non cominciare la mia visita proprio da qui.
Il “padre magico” Boyon
Esco stordito dall’Angkor Wat, la terra mi pare ballerina mentre percorro il lato orientale del fossato, finché m’accorgo che i gradini che scendono allo specchio d’acqua sono tutti sconnessi, come strappati alla gravità terrestre da una mano gigantesca. Qualche centinaio di metri ancora, ed ecco l’immenso recinto dell’Angkor Thom. Mi avventuro in un vero gioiello, il Boyon – che si potrebbe tradurre con “il padre magico” – la cui storia è travagliata: fu costruito a partire dal 1200 da due re, Jayavarman VII e VIII, con una pianta e una simbologia difficili da decifrare. Salgo per una impervia e sconnessa scaletta nella cosiddetta biblioteca, un vero gioiello di bassorilievi e muri come sempre in più che precario equilibrio. Solerti operai indiani sono al lavoro per riparare la grande struttura del tempio. Mi siedo su uno degli infiniti gradini del tempio – a proposito, nessuna città al mondo che finora ho visitato mi sembra atta più di Angkor ad essere chiamata “città dei gradini” –, e osservo il via vai dei turisti, come formiche che sciamano in un immenso formicaio. Mi rendo altresì conto della continua manutenzione che questi siti richiedono. Non è così della fede, che ha un continuo bisogno di ricostruzione, di nuovi contributi per “aggiornarla” all’oggi e per resistere ai cambiamenti della civiltà e del sentire comune?
Scendo dal Boyon e, fatti quattro passi nella polvere rossa, mi isso sulla Terrazza degli elefanti e poi su quella contigua del Re lebbroso. Una lunga camminata su una interminabile terrazza che dà su uno degli spazi più belli dell’intera Angkor. La terrazza, sospesa tra il Palazzo reale e il Prasat Suor Prat, misterioso complesso di dodici torri identiche, una sorta di immensa scena di teatro, s’allunga con un lastricato che dire sconnesso è un vero eufemismo. Avanzo continuamente attratto dai reperti, a destra e a manca, oltre che dalla natura onnipresente e fuori da ogni metro di paragone eurocentrico. Le vestigia, cioè il passato; la natura, cioè il futuro. La fede non è un cammino faticoso e accidentato attraverso la vita, reso possibile in fondo dai continui richiami alle cose prime, che i teologi chiamano protologia, e alle cose ultime, cioè all’escatologia?
I grovigli del Preah Khan
Ma ecco l’ingresso di un altro tempio, il Preah Khan, anch’esso circondato da un muro rosso e poroso, non abbastanza alto per incutere timore, ma sufficientemente per generare rispetto per il luogo, che ha anch’esso una storia non da poco: costruito a partire dalla seconda metà del XII secolo da Jayavarman VII e da tre o quattro suoi successori, contava la bellezza di mille professori di filosofia buddhista. Mi siedo ad ammirare il tempio appena superata l’entrata, un gioiello che avverto immediatamente incastonato nell’esuberanza della natura circostante: scorgo immensi “alberi del formaggio”, “ficus strangolati”, liane e una sorta di immensa quercia che ricoprono con le loro fronde generose l’intero sito.
Il resto della visita è un ininterrotto girovagare, quasi senza meta, su e giù per frontoni sbattuti al suolo dai secoli; gallerie che paiono restare in piedi solo per il contemporaneo contributo di numerosi fattori di equilibrio, riuniti dal caso; vestiboli oscuri rischiarati dalle candele di una devota monaca buddhista che pare sopravvivere dall’epoca d’oro di Angkor; finestre dai frontoni decorati a bassorilievo, peraltro sempre di pregevole fattura, che lasciano macerie… Soprattutto rimango esterrefatto dalle radici dei fromager che afferrano i muri e interi edifici come piovre tentacolari, arrivando a modificarne la morfologia ma impedendo nel contempo che crollino al suolo: ne modificano anche le forme, ma la sostanza di pietra rimane quella che era, resta in piedi, seppur grazie alle radici tentacolari degli alberi. Anche questa, allora, è una metafora della fede che muta le sue forme e i suoi riti, che vacilla sotto le prove della vita ma che si nutre e resta in piedi proprio nelle prove più difficili.
Una striscia di terra
Al tramonto torno all’Angkor Wat. Seguo la deambulazione di tre monaci fiammeggianti nel sole calante. S’inoltrano nella foresta dove vivevano centinaia di migliaia di khmer, attorno al monastero dell’epoca, in casupole di legno e di bambù. Nulla resta della città, salvo un tempietto dinanzi al quale i tre monaci officiano i loro riti, a me francamente sconosciuti. Al termine della giornata ad Angkor mi ritrovo quindi proprio nel luogo della quotidianità vissuta dai fedeli dell’epoca d’oro della città dei templi, dopo averne ritrovate le tracce lungo tutto il percorso. Un ringraziamento sale dal cuore.