Andy Warhol

Dall’apparenza alla trascendenza: il mondo di un artista divenuto icona dell'arte mercificata
Marylin Monroe

Icona dell’arte mercificata, esibita, Warhol è artista difficile da decifrare. Al di là dell’aspetto esterno eccentrico e della vita da divo della contemporaneità, come amava far passare – e cinicamente ci è riuscito –, questo piccolo uomo slovacco, nato negli Usa in povertà e morto a 58 anni nel 1987, rimane ancora un enigma. Cosa c’è davvero di lui nelle immagini provocanti, ripetitive, alienanti di volti e di cose?
 
Warhol certo ha compreso come pochi l’anima del Novecento capitalistico, quell’America del dopoguerra terrorizzata dal comunismo, custode della pace nel mondo; e al suo interno ferocemente attaccata alla voglia di emergere, di consumare, di far denaro. Tutto si compra, anche l’arte, anche l’anima.
 
Così gli eroi del cinema, come Marylin Monroe, Liz Taylor, o della politica – Kennedy, Mao – diventano icone mercificate, immagini di vuota apparenza. Non simboli, ma ossessive ripetizioni che appunto si svuotano da sé stesse, col loro solo apparire e rinnovarsi. Perciò l’uso dissonante del colore, elettrico e di una totale freddezza – la freddezza asettica delle vernici – diventa il mezzo espressivo di una nullità esistenziale e sociale. Quella che il mondo capitalistico non esorcizza, ma lancia e rilancia.
 
Warhol però approfitta di questo mondo, lo fa suo, vi si compiace, inventandosi immagini sempre più ardite, provocatorie, ambigue. Lui è anche tutto questo. Nonostante tante dichiarazioni, Andy vive dentro questo mondo figurativo raffinato fino all’esaurimento, fino a farsi glacialità. I fiori che disegna, con quelle tinte delicate, precise, “mentali”, si sposano con le lattine di Coca, i dollari, le scarpe, che, accostate ai volti, ai corpi, fanno tutto appiattire.
 
Tutto è piatto, informe nell’universo di Warhol. L’arte, la spiritualità dell’arte, è stata uccisa dall’immanenza assoluta, da quella apparenza – tu sei ciò che appari – che fa della falsità la verità. Forse mai come in quest’epoca il falso è diventato il vero, la menzogna, verità. Warhol, che è filosofo nell’intimo, lo sa, lo dice. Ma non lo esorcizza. Se ne approfitta, apertamente. Per stupire, prima sé stesso e poi il mondo, in un neo-barocchismo da robot. Ma è ciò che la società consumistica vuole, e Andy glielo dà.
 
Solo che Warhol non è tutto qui. Anche se la Madonna Sistina di Raffaello è raffigurata come merce e Ingrid Bergman come una monaca, e quindi in apparenza sono immagini ridotte a puro commercio, Andy non riesce a nascondere del tutto una tensione alla trascendenza. Personalmente credente, nella sua vita segreta, timido e pauroso, l’artista cerca il divino. Paradossalmente, proprio la sua produzione eccentrica, eccessiva, ossessiva di “cose”, di “nulla”, svela un’altra faccia della sua personalità. Vi si può leggere, oltre la piattezza, nella ripetitività, anche un disgusto, una mancanza di respiro che è anelito a salire di livello. Le lattine, le facce, i fiori cosa celano al di là? Cosa c’è dopo la loro sfilata che riempie la tela? Il Nulla? O, forse, la trascendenza vera. Quella che la corsa dei volti e degli oggetti copre, come un paravento. Ma sta in attesa di mostrarsi.
 
Ad Aosta, Centro Saint-Bénin. Fino all’11/3 catalogo Sala editori.

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