Andiamo in Abchazija?

Con Fazil’ Iskander, il massimo scrittore georgiano, “umorista per caso”, alla scoperta di un piccolo popolo rude e schietto
Abchazija foto di Olga Kozina

Forse qualcuno l’avrà udita nominare per la straordinaria longevità dei suoi abitanti. Ma per chi non sa dove si trova, ecco alcuni cenni essenziali sull’Abchazija. Situata all’interno della Georgia, fra il Mar Nero e il Grande Caucaso, e poco più grande dell’Umbria, ha tuttavia tre lingue ufficiali: abcaso, mingrelio e russo; ma vi si parlano ugualmente il georgiano, il turco, l’armeno, il persiano, ecc… a indicare la buona convivenza di popoli, civiltà e religioni altrove in conflitto.

Non c’è che dire, in Abchazija si è tolleranti; proprio per questo, la stessa satira dei difetti umani come dei mali sociali, in genere, lì non suona aspra. Prendiamo Fazil’ Iskander, ad esempio: massimo poeta e scrittore che vanti questa repubblica autonoma, fra i più amati dai giovani in ambito russo (specie per gli esilaranti racconti che hanno come protagonista Čik, una sorta di Tom Sawyer caucasico) e noto pure in Italia per le traduzioni dei suoi più importanti lavori (da La costellazione del caprotoro a Sandro di Čegem), si definisce «umorista per caso», avvolgendo tutto di un sorriso bonario, a cominciare da sé stesso. E sì che in passato, alle prese con le censure dei burocrati sovietici, non gli sono mancate le grane.

La sua definizione dell'humor merita una citazione: «Io ritengo che per possedere un buon umorismo bisogna giungere fino al limite del pessimismo, guardare in un abisso oscuro, convincersi che anche lì non c’è niente, e zitti zitti ritornare indietro. La traccia lasciata da questo cammino a ritroso sarà autentico umorismo».

Tale disincantata visione del mondo, nutrita di umori e colori georgiani, rende quanto mai seducente la lettura di Sandro di Čegem, romanzo-saga scaturito, nell'arco di più di vent’anni, dalla penna di questo abcaso di Suchumi. Nello scintillìo di una narrazione dai toni ora realistici e fantastici, ora farseschi o epici, si snoda la vita di un popolo orgoglioso, fiero, caparbio: quello di Čegem, il villaggio montano della sua fanciullezza, che per lui diventa il luogo della poesia e della moralità. In questo microcosmo spicca la presenza di “zio Sandro”, «perspicace, istrionico, astuto navigatore tra i marosi e le secche della storia››, con intorno un brulicare di personaggi minori, ma non meno affettuosamente delineati: «Pastori superstiziosi, mercanti gaudenti, principesse capricciose, indomiti banditi di stampo ottocentesco, e persino un mulo dotato di raziocinio».

Un mondo genuino, intriso di patriarcale saggezza e quasi fuori del tempo, a cui lo scrittore guarda con «la nostalgia dell’esule che rievoca un paradiso perduto»; salvo poi reagire – con l'arma dell'ironia – allorché lo vede costretto a confrontarsi con la politica e la storia, rappresentate via via dall’illuminato autocrate zarista, dal commissario politico, dal giudice istruttore e dallo stesso Stalin con la sua pavida corte.

Sulla scia della grande tradizione letteraria russa, che mostra il valore della vita spirituale del cosiddetto “piccolo uomo”, Iskander si sforza di «svelare l’importanza dell'esistenza epica di un piccolo popolo». E nel far ciò si chiede: «Sto forse idealizzando un mondo che scompare? Forse. L’uomo è incline a esaltare ciò che ama. Idealizzando l’immagine di una vita che scompare, noi, forse senza neppure saperlo, presentiamo il conto al futuro. È come se gli dicessimo: ecco quello che perdiamo, e tu in cambio che cosa ci dai? Che il futuro rifletta su ciò, se mai è in grado di farlo››.

 

 

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